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Visita

Scola ai detenuti: «Il Natale del Dio bambino che viene apre la speranza
per tutti»

Il cardinale Scola ha presieduto la Messa natalizia nel carcere di Bollate, dove si è anche intrattenuto in un incontro-dialogo con i detenuti. Non perdete mai la speranza, ha detto l’Arcivescovo

di Annamaria BRACCINI

23 Dicembre 2014

Sarà la giornata piena di sole, l’aria di Natale che, comunque, si respira anche in un carcere, sarà per la facciata arricchita di tanti colori, per i corridoi dove non si sente rumore di chiavistelli, ma la Casa di reclusione di Bollate è quasi l’emblema palpabile di quella speranza che, anche nelle situazioni più complesse e dolorose, dà senso alla vita.
Il cardinale Scola arriva nel carcere alle porte di Milano per la Messa natalizia, la visita ad alcuni reparti e per un dialogo con i detenuti. Nel teatro della struttura, dove è allestito l’altare, ci sono circa duecento reclusi in rappresentanza dei 1150, tra cui 90 donne, che attualmente compongono l’insieme della popolazione carceraria per il 35% di origine straniera.
Bollate è uno dei pochissimi penitenziari italiani non censurati dall’Ue per le condizioni della detenzione, noto anche a livello internazionale per la promozione di attività interne all’Istituto e per i cammini di reinserimento lavorativo usufruiti da circa il 40% degli ospiti.
«Cerchiamo di alimentare la speranza e il tempo che oggi lei ci dona è un segno in questo senso», sottolinea il direttore Massimo Parisi e anche Giuseppe, che porta il saluto iniziale a nome degli altri detenuti, dice: «in carcere viviamo la solitudine, l’esclusione e l’abbandono – anche se qui c’è attenzione per la dignità della persona –, ma soprattutto abbiamo bisogno di uscire dal carcere interiore del male e dell’angoscia».
Parole a cui pare una risposta immediata l’omelia dell’Arcivescovo, cui sono accanto come concelebranti i due cappellani don Antonio Sfondrini e don Fabio Fossati; sono presenti anche i due cappellani della Comunità Rom e Sinti, don Mario Riboldi e don Luigi Peraboni, proprio perché alcuni detenuti sono nomadi. E, naturalmente ad ascoltare il Cardinale ci sono anche i volontari, oltre 400 quelli attivi a Bollate, e le guardie di Polizia penitenziaria che, in totale, sono circa 350.
«C’è modo e modo di espiare la giusta pena e di ritrovare se stessi. Qui si vede subito la creatività e l’impegno che ognuno di voi offre per questo penitenziario che è ormai un punto di riferimento non solo per il nostro Paese», nota Scola, che centra la sua riflessione su due elementi. Anzitutto la concretezza di un Dio che entra nella storia abbracciando personalmente ciascuno e l’intera famiglia umana. La nascita del Signore ci riempie di speranza e di gioia proprio perché la sua presenza tra noi continua nella storia, la sua venuta è quotidiana e ci apre al futuro».
Insomma, anche in un carcere che comunque sia, è sempre un luogo di dolore, può esistere la gioia che nasce da una tale consapevolezza, suggerisce l’Arcivescovo.
Da qui una seconda indicazione: «Guardate in questo Natale alla vicinanza di Gesù, del Dio bambino che redime e ci educa ogni giorno, portando l’eternità e la possibilità che il peccato sia perdonato. Auguro a tutti – a chi è cristiano, a chi crede di non poter credere, a chi è di altre fedi – , di comprendere che siamo portati e mantenuti nella vita dal Signore. Dobbiamo avere la dignità di chiedere perdono, di equilibrare la bilancia della giustizia, se si è sbagliato, ma occorre sapere che l’abbraccio di Dio non ci abbandona mai, perché egli ci conosce in profondità. Il Suo non è un semplice abbraccio umano».
Poi, tra i canti eseguiti benissimo dal coro formato da una quindicina di reclusi – «molto bello il Canto di ringraziamento “In una notte come tante”, si complimenta apertamente anche il Cardinale –, la liturgia curata, la Comunione a cui si accosta la grande maggioranza dei presenti, l’applauso finale, si conclude la Celebrazione e si avvia il dialogo.
Sei le domande poste direttamente da altrettanti detenuti. Elio chiede quale sia l’impressione ricavata da Bollate, Marco cosa suggerire allo Stato sul tema della pena, Antonio racconta la sua esperienza di lotta interiore tra “buoni propositi” e le difficoltà che la reclusione comporta e se l’Arcivescovo di Milano concorda con papa Francesco che ha definito l’ergastolo “una pena di morte mascherata”. L’impressione del Cardinale sulla Casa di reclusione è certamente positiva e più volte ribadita, così come l’invito a essere promotori, anche tra le sbarre, di vita buona e di amicizia civica, di solidarietà reciproca, perché «ogni circostanza, anche la più sfavorevole, se Dio la permette, apre una prospettiva di bene».
Questo non significa che «si debba subire supinamente l’ingiustizia di condanne immeritate o esagerate. Sono d’accordo con il Papa, credo – aggiunge il Cardinale – che la durata della pena debba essere proporzionata, non precludendo del tutto il futuro della persona».
Quell’uomo e quella donna che mantengono, anche se detenuti, «una loro dignità inviolabile», cui il «lavoro offre straordinarie possibilità di recupero. La strada su cui si può espiare e crescere è una sola: quella di progredire nella capacità di amare e di lavorare. Mi auguro che le istituzioni sostengano per voi un lavoro che sia vero e giustamente remunerato».
E Annalisa, allora, domanda se si può chiedere alla Chiesa di Milano un impegno relativo al fine-pena, specie per chi «non fa famiglia o lavoro».
«Esistono già strutture a Milano, Lecco, Busto Arsizio, sono operative la Caritas, alcune Cooperative e Fondazioni su questo fronte», spiega il Cardinale, che prosegue: «bisogna avere il coraggio di incrementare le misure alternative. In questo senso si deve muovere la società civile, del Paese che è la più ricca di Europa. È necessario trovare un equilibrio tra persona, corpi intermedi, società civile e Stato per un reinserimento che sia davvero utile, reinserimento affettivo e lavorativo».
Infine Angelo, che in carcere ha intrapreso un camino di fede e Carlos, originario dell’Equador, che evidenzia le difficoltà della convivenza tra tradizioni ed etnie diverse. Chiara, in entrambi i casi, l’indicazione di Scola: «Forse si può vivere meglio in carcere, che non fuori, l’itinerario della fede. Abbandonati con serenità al Signore, rifletti su te stesso in profondità e sappi che, per quanto la libertà fisica sia limitata, nessuno può toccare quella del cuore e della mente. C’è una inclinazione naturale che ci accomuna tutti, la compassione, nel senso di sentire insieme come un’unica famiglia umana le cose e i sentimenti. Senza la relazione con gli altri non c’è vita, tanto che la malattia più tragica è l’autismo, il rinchiudersi in se stessi. Cogliete l’occasione del tempo che avete a disposizione, studiate magari l’italiano se siete stranieri, appassionatevi all’arte – sulle pareti di tutto il carcere sono moltissime le pitture che decorano coorridoi e reparti –, lavorate. Siete a pieno titolo costruttori di civiltà nuova e, se credete, edificatori della Chiesa. Costruite lavorando in amicizia con solidarietà il domani».

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