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Monza

Scola: «Il carcere sia un’esperienza di crescita e maturazione»

L’Arcivescovo ha visitato l’Istituto di pena brianzolo, celebrando la Messa e incontrando i detenuti e il personale carcerario in un momento di dialogo: «Abbiate stima di voi stessi, Dio vi vuole bene e non vi lascia mai soli»

di Annamaria BRACCINI

23 Dicembre 2015

Il canto dell’Adeste Fideles nella piccola Cappella appena restaurata, con la suggestione del Natale vicino e del Dio che si fa bambino, apre l’Eucaristia che il cardinale Scola presiede nel carcere di Monza.

La festa e l’inaugurazione dello spazio sacro – ristrutturato dagli stessi detenuti guidati da un agente di polizia penitenziaria, con i fondi raccolti dal Cappellano – sono l’occasione per una celebrazione che riunisce un centinaio di detenuti (tutti quelli che la Cappella può contenere), del personale di guardia, dei volontari e delle autorità (tra cui il sindaco di Monza Scanagatta e il provveditore vicario alle carceri di Lombardia Porcino). Concelebrano il vicario episcopale di Zona V monsignor Garascia, l’arciprete del Duomo di Monza Provasi e il cappellano don Augusto Panzeri. E se la direttrice dell’Istituto di pena Maria Pitaniello parla di «un’occasione speciale, che segna un altro piccolo passo avanti nella umanizzazione della pena, vissuta con due parole-chiave, tolleranza e reciproco rispetto, necessarie in una realtà come quella carceraria, in cui devono convivere religioni e modi di pensare diversi», è un recluso a dire per intero l’emozione per questa Messa partecipatissima: «Qui da noi si fatica a riconoscere il Natale, ma ce la mettiamo tutta per viverlo al meglio. Questo Natale è all’interno dell’Anno Santo della Misericordia: ci aiuti, Eminenza, a fare nostre le ragioni per correre a vedere Gesù – da due settimane i detenuti stanno riflettendo sulla figura di Zaccheo, ndr -, riconoscendo gli errori commessi. Continui il passo con noi anche quando questo incontro sarà concluso».

Queste parole muovono la riflessione del Cardinale che, portando tra le mani il Pastorale in legno intagliato nel laboratorio di falegnameria interno al Penitenziario, si rivolge direttamente ai reclusi: «Da quando sono Vescovo ho sempre visitato le carceri almeno due volte all’anno e ho sempre imparato molto. Non vi sembri strano che dica questo. Lo faccio perché con voi si può dialogare in termini franchi e diretti, parlando dei problemi che contano veramente, tra cui il principale, che è di gran lunga la questione del senso del vivere, del “per Chi” inizio, ogni mattina, con un’energia sempre rinnovata, il cammino nella prospettiva di ristabilire rapporti veri e autentici e recuperando la dignità che è propria di ogni uomo. Per questa ragione provo gratitudine tutte le volte che mi reco in un Istituto di pena». Il riferimento è al cambiamento interiore, che solo può permettere un vero recupero della dignità personale e che “dentro”, dietro le sbarre, paradossalmente si può sperimentare con più profondità: «Il Vangelo di Zaccheo mi pare che sia un bell’esempio di questo cambiamento. Nel mondo “fuori”, specie in questo mutamento di epoca, è molto facile nascondersi dietro un individualismo che pensa solo a se stesso e non riconosce la dimensione del “noi” per poter ricostruire una società più degna. Non bisogna subire la pena, ma viverla come attori, perché così è garanzia di cambiamento e possibilità di uscirne rinnovati».

Da qui l’augurio: «Vorrei che il Santo Natale fosse, per ognuno di voi, un sentirsi interpellati, come Zaccheo, da Gesù. È importante, però, che ciascuno ci metta del suo, si giochi, che cambi qui e ora. Vivete la pena perché la dignità è più grande di ogni vostro reato». Poi, dopo lo scambio della pace che l’Arcivescovo porta a uno a uno ai carcerati e la liturgia eucaristica, conclusa la Celebrazione, parte un dialogo spontaneo con qualche ospite dell’Istituto. Come Salvatore, che ricorda la famiglia e osserva: «Ci sono giorni nei quali ci sentiamo più soli, ma mi rendo conto che questo è un periodo di transito, per recuperare la dignità».

Non manca un pensiero all’integrazione multietnica che nel Penitenziario di Monza – seicento detenuti, da quest’anno tutti uomini, con pene anche prolungate, ma senza ergastoli -, vede la realtà di una sostanziale presenza paritaria di italiani ed extracomunitari: «Se riusciamo a darci una mano tra noi, cristiani e musulmani, che viviamo insieme 24 ore al giorno, perché non devono riuscire quelli “fuori”?». Filippo aggiunge: «Vorremmo che ci fosse Misericordia per tutti noi, che vogliamo riconoscere il briciolo di bene che c’è in ognuno». Cosimo racconta il suo itinerario di progressivo recupero della fede: «Mi sentivo abbandonato e solo, ma un giorno, nella mia cella, ho sentito che c’era qualcuno pronto a raccogliere la mia disperazione e sono rinato davvero, non sono mai più stato solo». Il cappellano don Augusto dà voce alla domanda di molti: «Si può essere buoni padri, anche avendo sbagliato tanto?».

Per tutti arriva la risposta del Cardinale che lascia una cifra per acquistare libri che andranno ad arricchire le future biblioteche delle varie sezioni del carcere: «Un padre resta sempre tale: la questione è riconoscere il male fatto. Mi ha sempre colpito che tra i detenuti nessuno nega la necessità di espiare la pena. Occorre riconoscere la colpa e imboccare con forza la strada del perdono chiesto, anzitutto, a coloro a cui si è fatto del male. Queste due condizioni permettono di vivere la pena, nel rispetto reciproco che è il cambiare “qui” e “subito”, rendendo costruttivo questo momento di prova nel quale si cresce. In questo modo si può essere un papà ancora più consapevole. Dovete riscoprire il valore pieno degli affetti e cosa significa amare, sull’esempio di Gesù che ama per primo, che è morto per noi e che ama in ogni istante come se fosse l’ultimo. Possiamo peccare e sbagliare – siamo poveri uomini -, ma adesso che siete in carcere, vivetelo come esperienza di maturazione, usando bene il tempo».

La speranza, evidente nelle espressioni di Scola, è che «si incrementino modi alternativi di scontare la pena, di impiegare il tempo (per esempio nello studio della lingua italiana per gli stranieri) e aumentino le possibilità di lavoro»; che si possa arrivare al regime diffuso delle cosiddette “celle aperte”, secondo quanto prevede l’articolo 27 della Costituzione. Ma tutto a una condizione inderogabile: «Abbiate stima di voi stessi, ricordate che Dio vi vuole bene e non vi lascia mai soli. Qui è più facile riconoscere l’unico Dio e svolgere un lavoro di integrazione che “fuori” risulta essere molto faticoso e reso più difficile dalle frange terroristiche». 

Poi, prende la parola Rosario «colpito» dal cambiare qui e ora, auspicato dal Cardinale: «Il mondo cambia se io cambio, perché dall’insieme delle nostre persone tese realmente a cambiare, lentamente maturano le condizioni per i mutamenti della società intera, specie in questo tempo di travaglio che, come in un parto pur nei dolori, fa intravvedere una luce e fa nascere qualcosa. Il cambiamento rende più facile portare le responsabilità della vita».

Infine, la visita a due reparti – tra cui quello dei cosiddetti “protetti” -, dove il Cardinale porta la sua benedizione.

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