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Abbazia di San Benedetto

Scola: «Il Monachesimo è paradigma
di vita buona piena di significato»

Presiedendo l’Eucaristia nella festa di san Mauro, presso il Monastero dei Benedettini Olivetani di Seregno, il Cardinale ha richiamato il grande valore della tradizione del monachesimo, come tempo di preghiera e di lavoro

di Annamaria BRACCINI

15 Gennaio 2016

È la prima volta che il cardinale Scola visita, come arcivescovo di Milano, l’abbazia di San Benedetto in Seregno ed è tanta la gente di tutte le età che lo accoglie nella chiesa del complesso monastico, luogo di preghiera amato dalla città brianzola e da tutti gli abitanti del territorio.

Spazio privilegiato per vivere il Sacramento della Riconciliazione, l’Abbazia ha come patrono San Mauro abate, esempio altissimo di vita cenobitica benedettina e primo collaboratore di san Benedetto da Norcia. E, così, è proprio nella Festa liturgica di San Mauro, patrono anche degli ammalati, che l’Arcivescovo presiede qui l’Eucaristia, in un giorno di devozione popolare molto sentita, «di cui si trova traccia anche nei diari del 1939 del cardinale Schuster», come ricorda l’abate, dom Michelangelo Tiribilli.

I monaci della Comunità – sei i sacerdoti, tra cui l’abate emerito, don Valerio Cattana – concelebrano il Rito, così come il prevosto di Seregno, monsignor Bruno Molinari e il decano don Flavio Riva; in prima fila siede il sindaco della città, Edoardo Mazza con il vicesindaco e le autorità militari.

Il clima è di grande gioia – dice, nel suo saluto di benvenuto, l’Abate – che richiama la predilezione di san Carlo Borromeo per il Monastero benedettino di Baggio e l’amicizia del cardinale Montini per l’Abbazia, che «viene considerato il polmone spirituale della zona, anche perché dedichiamo molta dell’attività monastica alla Confessione. La sua presenza, Eminenza, ci incoraggia a continuare il nostro impegno nella fedeltà al carisma del fondatore». San Bernardo de’ Tolomei, senese, fondatore di quel Monastero di Monte Oliveto Maggiore da cui prendono nome gli Olivetani e nel quale il Cardinale predicò «un memorabile Corso di Esercizi spirituali» a metà degli anni Novanta. Nelle parole di Scola si sente, infatti, una speciale amicizia e torna «la gratitudine e la gioia» per una comunità vivace e ricca.

«Celebrare l’Eucaristia con il proprio popolo è il momento in cui l’Arcivescovo tocca il vertice del suo compito e del suo Ministero», sottolinea il Cardinale, la cui riflessione è annodata da un preciso filo rosso: «fare di Gesù il centro di ogni azione della nostra vita, nell’esperienza del dolore e della prova, nel lavoro e nel riposo, nella costruzione di una società giusta, proprio perché l’Eucaristia è il gesto che rende presente Gesù nella storia con la sua opera di redenzione».

Il pensiero va a san Mauro Abate, a san Bernardo e «a che tutti coloro che si sono adoperati per questo Monastero e per quello delle claustrali Sacramentine (poco lontano e che il Cardinale ha visitato prima della Messa) come il patriarca Paolo Angelo Ballerini che non poté mai fareb il suo ingresso a Milano come Arcivescovo e che ebbe gran merito nella fondazione dell’Abbazia e ne benedì la prima pietra della chiesa nel 1892.

«Ma cosa è il monachesimo?» – si chiede Scola –, «perché nella sera di un giorno feriale siete accorsi così numerosi?». Chiara la risposta: «Perché il monachesimo è il paradigma, un esempio di cosa sia una vita piena di significato e, quindi, carica di bellezza e di bontà. Io stesso a Monte Oliveto ho potuto sperimentare il ritmo di vita dei monaci ed è significativo notare come il rapporto vero con Dio trasfigura ogni affetto dell’uomo il quale trova nel lavoro un fattore che attua in pienezza la sua umanità», nota l’Arcivescovo.

Due, da questa consapevolezza e dalle Letture della Liturgia celebrata in Rito romano, i richiami.

«Tante volte – come scrive Matteo – viviamo la nostra fede senza riconoscere Gesù pienamente in tutte le sue fattezze, in tutta la misericordia che ci usa e nel bene che ci vuole. Perché i discepoli non sanno riconoscerLo e non lo sappiamo fare noi oggi? Perché la fede è ancora debole. In questo luogo che, da decenni, conduce la preghiera corale, dobbiamo con umiltà chiedere al Signore di riportarci a un rapporto più vivo con Lui che non finisca quando usciamo di chiesa».

Dal Libro biblico del Siracide e dalla sua definizione della sapienza, il secondo appello: «La sapienza è il modo di guardare alla realtà secondo Dio e, per noi, con lo sguardo che Gesù ci ha insegnato. Le prove – non è detto che le più tragiche saranno risparmiate al nostro Paese -, le fatiche di un’accoglienza capace di rispettare la nostra storia, ma che realizzi l’apertura agli altri; guardare all’educazione; salvaguardare la famiglia come valore unico e irripetibile, cellula base di una società capace di valorizzare la dignità di tutti», chiedono questa sapienza del cuore.

«La ricerca della sapienza, che il Monastero mette in evidenza, ci può aiutare a superare quella difficoltà nella quale il Cristianesimo di lunga tradizione nelle nostre terre è caduto, la frattura tra la fede e la vita, per cui, uscendo dalla chiesa, ci lasciamo alle spalle il rapporto eucaristico con Gesù, giudicando secondo quel pensiero unico e dominante che la televisione ci propone».

Come a dire, se vogliamo costruire vita buona, pur in una società dai modi di vedere diversi, occorre pensare secondo Cristo e pensare Lui attraverso tutte le cose in ogni rapporto e circostanza.

Infine, l’ultima raccomandazione, prima del saluto affettuoso della gente, per «vedere la nuova parentela inaugurata da Cristo che allarga quella del sangue e della carne e che ci fa fratelli, rendendo la vita degna di essere vissuta e comunicata a ciascuno».

«Quanti battezzati si sono dimenticati la via di casa anche se sono cristiani: invitateli con semplicità a passare la porta Santa con voi. Dobbiamo avere il coraggio di tornare nella grande casa aperta che è la Chiesa, attraversando quella porta,Via, Verità e Vita, che è Gesù».

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