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Varese

Scola: «La strada per la convivenza è recuperare,
con senso comunitario, esperienze creative e solidali»

Il Cardinale, a Varese, ha concluso gli incontri del ciclo promosso dal Centro Gulliver, “Pensare futuro” e, a Cantello, ha benedetto e inaugurato la “Casa Nuovi Orizzonti” per malati psichiatrici, ristrutturata in questi mesi

di Annamaria BRACCINI

10 Dicembre 2016

Dialoga, riflettendo sul presente, confrontandosi su temi diversi, ma tutti accomunati da quella sfida che è sotto gli occhi di tutti, la convivenza che deve essere possibile. 
È il cardinale Scola che a Varese, presso il Teatro Santuccio, conclude, con la conversazione “Il pensiero di Cristo in una convivenza plurale”, il Ciclo di incontri “Pensare futuro. Analizzando i bisogni insieme riprogettiamo il futuro”, promosso per il Trentesimo del “Centro Gulliver”. Accanto all’Arcivescovo, il fondatore e anima dell’Istituzione da sempre vicina ai più fragili, don Michele Barban e Valerio Melandri, docente del Master in Tecniche di Found Raising all’Università di Bologna. Si parte da un’intervista a Giuliano Amato, in cui l’ex premier notava    la capacità di fare rete, nel farsi prossimo, peculiare del mondo cattolico, al contrario di quello laico. 

Dono, carità e com-passione

«Le contraddizioni sono create dalla storia, e questa constatazione di Amato colpisce anche me – commenta il Cardinale – tuttavia, devo dire che la sua affermazione è un poco tranchant per quanto riguarda le terre ambrosiane, nelle quali vi sono molte realtà di associazionismo non di ispirazione cristiana. Il problema numero uno è quello di vivere con naturalezza la com-passione, non in senso pietistico, ma nella logica di appassionarsi insieme a un bisogno. Basta vedere cosa si è mosso dopo il terremoto, con una partecipazione che ha come denominatore comune appunto la com-passione. Poiché facciamo tutti un’esperienza di fragilità ci è normale aiutare chi precipita nella fragilità stessa, tanto che il senso di compassione è richiamato da tutte le grandi religioni. Per quanto riguarda noi cattolici, siamo motivati da ciò che chiamiamo carità, nell’essere seguaci di Gesù che ha dato la sua vita gratuitamente. Il cristiano senza una spinta al gratuito non ha un suo profilo compiuto. Non è con la “forza dei muscoli” ma facendo esperienza di un amore gratuito, che impariamo a nostra volta a donarci». 
Poi la costatazione, forse, più amara: «In una società della stanchezza come quella europea, l’individualismo, che diviene autismo spirituale come incapacità strutturale di comunicare se stessi, rende più difficile a tutti la condivisione e il dono. In questo, la sottostima della famiglia, che si vede dall’assenza di vere politiche dal dopoguerra in poi, diventa una sorgente del rischio di rinchiudersi, senza guardare magari chi abita sullo stesso pianerottolo. E quando, magari, costui ha la pelle di un altro colore e modi di vita differenti, la questione diviene ancora più marcata. Creo, però, che il nostro popolo ambrosiano sia capace di condivisione anche se trovo Lecco e Varese piuttosto in caduta, mentre Milano è in rinascita. Questa è la percezione prima che ho avuto in questi cinque anni in Diocesi». 
La domanda è anche sulla differenza tra “dono” e “regalo”. «Il moto di compassione connaturato al nostro essere uomini, che può avere un orizzonte più o meno largo a secondo delle nostre capacità, ha a che fare con la filantropia, cioè con l’invenzione di forme stabili di condividere il bisogno. La carità, invece, è un’immedesimazione con lo stile di vita di Gesù, una posizione del cuore che apre all’altro». L’elemosina, da non disprezzare tanto, è un livello minimo della carità, anche se sarebbe meglio riuscire a creare una società profondamente solidale, specie in mondo dove la percentuale degli esclusi e degli scartati resta alta, suggerisce Scola, che aggiunge: «Sono rimasto molto sorpreso di vedere a Milano periferie in cui, a macchia di leopardo, sono presenti sacche di emarginazione molto pesanti. La logica del dono, anche materiale, è importante e qualche volta dovremmo dare non solo il superfluo. Tuttavia, non esiste una società civile elevata come quella che si nota, con l’associazionismo, come nel nostro Paese. Da questo punto di vista bisogna stare attenti al populismo. 

Meticciamento e paura  

Il discorso si sposta sul meticciato e sul come ripartire dai valori, «visto che c’è decadimento». 
«Oggi, circa 200 milioni di persone si stanno muovendo sul pianeta: ciò è sempre accaduto, ma mai vi sono state proporzioni come queste. Il meticciamento è un processo che non possiamo impedire, ma solo orientare, identificando i soggetti in campo. La Chiesa, che di fronte all’immigrazione si fa prossimo di chi è nel bisogno urgente; il livello dell’autorità istituzionale, dove sentiamo la stanchezza della società europea che non riesce a trovare soluzioni; la società civile, dove il meticciamento è già in atto, come vediamo negli oratori». 
Chiaro il messaggio per il Paese: «Siamo eredi di errori storici come il colonialismo, ma credo che  l’Italia dovrebbe presentare un progetto organico e non solo un piano di interventi a diverso livello», giocando il ruolo di mediazione nel Mediterraneo, fa capire l’Arcivescovo. «Io non trovo che il nostro popolo sia razzista, ma sommovimenti tanti rapidi, come questo che si sta vivendo, possono suscitare paura, tanto più che l’ondata migratoria è andata a innestarsi in una situazione di crisi: La paura non risolve i problemi: torniamo, qui, all’urgenza del compito educativo attento alla dignità insuperabile della persona umana». 
Insomma, occorre promuovere civiltà, amicizia civica e sussidiarietà: «Partecipare alla strada del dono, come dimostra un’istituzione come “Gulliver”, può aiutare a recuperare valori attraverso esperienze creative e solidali, avendo senso della comunità e direzione di cammino. La società plurale non smentisce questo dato, anzi, poiché, pur avendo visioni del mondo diverse, siamo costretti a vivere insieme. Questo è un bene sociale che deve essere assunto come bene politico, cioè collocato in una progettualità di cui le Istituzioni devono farsi carico». 

Famiglia e identità plurali 

Interrogativi anche sulla famiglia: «Ai cristiani dico, “Sii te stesso”, testimonia ciò in cui credi, perché la testimonianza, che non è solo il buon esempio, è conoscenza adeguata della realtà e, quindi, comunicazione. Bisogna avere una grande cura dei nostri giovani che mostri loro la bellezza, la bontà e la verità dell’amarsi per sempre, perché questa è la dimensione propria dell’amore. Poi, ci sono le fragilità che vanno accompagnate, come dice il Papa in “Amoris Laetitia”, senza escludere nessuno. Su questo, le nostre comunità ecclesiali devono fare un salto di qualità, non solo moltiplicare le strutture». 
Infine, il presidente del Consiglio Regionale, Raffaele Cattaneo – in prima fila ci sono anche il sindaco di Varese, Orrigoni, il prevosto, monsignor Panighetti e il prefetto, Zanzi – chiede come interpretare un’idea positiva di identità.
 «L’identità, per sua natura, è dinamica e, se si fossilizza in uno schema, non lo è più. Lo vediamo nei luoghi dell’amicizia, della solidarietà, nell’amore tra uomo e donna, nella crescita dei figli. L’identità mette in preventivo di doversi evolvere, perché l’incontro sempre ci sposta, facendo spazio all’altro da cui siamo smossi e commossi. Il compito delle Istituzioni politiche è creare le condizioni per cui le identità e le differenze possano esplicitare tutto il bene che possono creare. Non si possono nascondere i problemi che gli strumenti di rappresentanza hanno oggi, ma il tentativo deve essere quello di orientare verso vita buona. Una strada pratica c’è: partire dal bene comune e, a poco a poco, narrandoci e parlando troveremo una via di uscita dalle complessità. Basti pensare alla nascita dell’Europa unita che trovò un primo punto di contatto dal punto di vista economico sul carbone e l’acciaio per arrivare, poi, al livello politico. Ci vuole tempo: un uomo politico che sia veramente tale non può rincorrere il successo immediato, può e deve rischiare l’insuccesso. Qui si vede la mancanza di senso della comunanza di intenti, del collettivo, da cui, invece, dobbiamo ripartire». 

La “Casa Nuovi Orizzonti” di Cantello 

Ancora in mattinata, l’appuntamento è anche a Cantello, dove da 20 anni è attiva la “Casa Nuovi Orizzonti” che ospita due Comunità psichiatriche di “Gulliver”, interessata in questi mesi da un’imponente opera di ristrutturazione, che ha portato alla possibilità di dare un tetto e assistenza a 10 persone e di progettare percorsi di accompagnamento all’autonomia attraverso la creazione di due appartamenti protetti. Bello che, fin dalle origini della “Casa”, quando vi erano assistiti malati di Aids il paese abbia “adottato” la struttura. Lo ricorda don Barban, cui fa eco Cattaneo, che indica in “Gulliver”, una capacità emblematica di fare sussidiarietà preziosa per tutta la Comunità locale, traducendo con uno sguardo profondamente cristiano e umano riconoscibile da tutti, il lavoro per la persona e la società. Davanti a operatori, a chi ha lavorato con generosità per rendere tutto questo possibile (come la Fondazione Eurojersey), ai sacerdoti con il decano, don Mauro Barlassina e il parroco don Egidio Corbetta, ma soprattutto rivolto agli ospiti che gli fanno festa, il Cardinale dice:  
«Il mio vuole essere un abbraccio personale a ciascuno. Ognuno di noi, qualunque sia stato il suo percorso, è sempre recuperabile e in grado di ripartire. Se ci sosteniamo dentro la solidarietà e l’amicizia questa ripartenza si verificherà». E, alla fine, sotto un sole invernale e bellissimo la benedizione., l’inaugurazione della “Casa” e il momento conviviale.  

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