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Busto Arsizio

Scola: «L’ospedale mantenga il senso delle cure,
il malato non sia ridotto alla sua cartella clinica»

Nel suo intenso pomeriggio a Busto Arsizio, il cardinale Scola ha dialogato, presso l’Ospedale di Circolo, con il personale nel centenario della fondazione della struttura e ha celebrato la Messa nella parrocchia San Giuseppe, che ha “compiuto” venticinque anni

di Annamaria BRACCINI

16 Aprile 2015

«Il significato della cura e la modalità con cui, nella prospettiva cristiana e secondo una visione umana degna di questo nome, si deve affrontare la malattia, il dolore e, in prospettiva, la morte».

Sono stati questi i temi su cui si è riflettuto nell’intenso e articolato pomeriggio che il cardinale Scola ha trascorso a Busto Arsizio, presso l’Ospedale di Circolo, prima, e, poi, celebrando l’Eucaristia nella parrocchia “San Giuseppe”. Due gli anniversari importanti che la visita dell’Arcivescovo ha inteso sottolineare: i cento anni del nosocomio – oggi una realtà all’avanguardia e di eccellenza – e i venticinque della parrocchia.

Presenti molte autorità, tra cui il presidente della Regione, Maroni, il vicepresidente e assessore regionale alla Salute, Mario Mantovani, il sindaco di Busto, Gigi Farioli, il Cardinale, presso l’Aula Magna dell’Ospedale, dialoga così, attraverso diverse domande, con il personale medico e infermieristico.

Una realtà importante, quella dell’Azienda Ospedaliera di Busto, comprendente anche i presidi di Saronno e Tradate, che complessivamente conta più di 1580 dipendenti e ha visto, nel 2014, diciannovemila ricoveri, come dice il direttore della struttura, Armando Gozzini. Importante anche il lavoro della Cappellania: accanto all’Arcivescovo, infatti, siede anche il cappellano don Giuseppe Colombo.      

Le parole di attenzione per la cura dei cittadini – «compito della politica è trovare le risorse per assicurare servizi a tutti, senza chiedere nulla», evidenzia Maroni – sono il filo rosso che ha intreccia il dialogo con l’Arcivescovo. Un confronto a 360° su questioni cruciali, dal “dolore innocente”, «come si giustifica?», alla professione medica «quale scienza legata alla sapienza con la “S” maiuscola», dalle modalità con cui vivere il «compito della cura» al rapporto tra cura e tecnologia moderna  – «una tremenda arma a doppio taglio» – per giungere a come sostenere i malati nel “fine vita”.   

Nel legame inscindibile tra “salute” e “salvezza”, «secondo quanto indica l’origine etimologica latina della parola stessa salute», il punto d’avvio della riflessione di Scola che dice: «Senza questo legame non si potrebbe comprendere la tragedia del dolore innocente. In una prospettiva puramente umana in cui si riduce l’esistenza a un inizio senza nesso fondante e a una fine inevitabile senza alcuna permanenza oltre la morte», la malattia rimane senza spiegazione.

Insomma, il problema è quello della «ricerca del senso» che non è «domanda teorica», come appunto dimostra un’arte del curare, capace di «rispettare la vita fino all’ultimo respiro, utilizzando bene le cure palliative, senza accanimento terapeutico».

Ricerca di senso da rendere presente anche negli ultimi momenti perché «nessuno dei soggetti coinvolti con l’atto del morire, dal malato, al medico, ai familiari, può estraniarsi».     

Poi, la Messa nella chiesa affollatissima – concelebranti il prevosto di Busto, monsignor Pagani il parroco, don Oriani e i due cappellani dell’Ospedale – presieduta dal Cardinale che invita, nell’omelia, a guardare al Crocifisso «pieni di speranza anche quando il peccato e il male fisico, di varia natura, ci investe, perché Egli ha vinto il peccato e la morte assicurandoci il passaggio alla vita eterna. Eternità di cui possiamo avere un’anticipazione nell’Eucaristia».

Qui, nella prospettiva che siamo destinati a durare per sempre se non rifiutiamo esplicitamente l’esperienza dell’amore di Cristo che attira tutti a sé, occorre, allora «collocare l’esperienza della malattia, il dolore dei familiari, il lavoro tanto prezioso degli operatori sanitari, la collaborazione del volontariato, l’impegno delle Istituzioni a mantenere luoghi di sanità che siano veramente di eccellenza e al massimo dell’economia possibile, per poter assicurare a tutti le cure».

Dalla Lettura degli Atti, che descrive lo stile di vita della Chiesa primitiva, arriva la  conclusione dell’Arcivescovo: «Questo stile è riassumibile in una parola: “condivisione”, che significa che dobbiamo essere un cuore solo e un’anima sola. L’Ospedale e questa parrocchia, ad esso tanto legata, divenga un luogo dove essere sostenuti, dove accogliere chi è nella sofferenza senza mai ridurre il malato alla sua cartella clinica, ma accompagnandolo alla guarigione o all’abbraccio della Trinità che ci ama».