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Milano

Scola: «Non si può fare
il prete “in solitaria”»

In Curia a Milano sono stati immessi nell’Ufficio di parroco o di responsabile di Comunità pastorale, quarantatré sacerdoti diocesani. Il Cardinale ha richiamato la necessità della comunione nel ministero e tra i sacerdoti

di Annamaria BRACCINI

9 Settembre 2014

«Un gesto non formale che è una delle espressioni privilegiate dell’appartenenza al presbiterio diocesano come luogo di comunione».

Così il cardinale Scola definisce la professione di fede e il giuramento di fedeltà dei quarantatré sacerdoti ambrosiani che, stamani nella Cappella arcivescovile, in Curia a Milano, sono stati immessi nell’ufficio di parroco o di responsabile di Comunità pastorali, diciassette, questi ultimi. Presenti il Vicario generale e alcuni Vicari di Zona, la Celebrazione della Parola, appunto, per tale immissione, è stata così anche occasione – oltre gli aspetti giuridici previsti dal Codice di Diritto Canonico – per riflettere, attraverso le parole dell’Arcivescovo, sul ruolo stesso, oggi, del prete e del rapporto con la gente. 

Esprimendo la sua gratitudine, anche a nome del Consiglio Episcopale, il Cardinale ha infatti richiamato subito l’importanza del momento – nel quale sono state anche avviate ufficialmente tre nuove Comunità pastorali, a Seregno, Bresso e “Gesù Buon Pastore” a Milano – simbolo di quella comunione «senza la quale la fioritura della persona non è, alla lunga, possibile: comunione presbiterale a cui – ha proseguito – noi, i nostri affetti e la nostra energia, devono tendere continuamente. Non c’è più spazio per fare il prete “in solitaria”».

E questo anche perché la gente non capirebbe, come già fatica a comprendere «il significato stesso del prete». Una «perdita di senso», per usare ancora le parole dell’Arcivescovo, da cui «viene lentamente una perdita di autocoscienza e uno smarrimento che ci consente di continuare solo a condizione di molti compromessi con noi stessi, con i confratelli, con il popolo che ci è affidato».

Sottolineando «i cambiamenti strutturali realizzati nella nostra Chiesa ambrosiana, estremamente significativi e che hanno comportato costi e sacrifici», e «la riflessione che ai primi di ottobre la Congregazione per il Clero svilupperà sulla riforma del presbiterio e della figura del prete e anche noi dobbiamo approfondire, dopo la chiusura dei cosiddetti cantieri», il Cardinale ha indicato, quale nodo centrale, la necessità dell’«unità del presbiterio che chiama alla conversione».   

«In questo contesto, il gesto che stiamo compiendo è come se ponesse un palo solido da affondare nella palude della società postmoderna. La professione della fede in tutti i suoi aspetti e il giuramento di fedeltà sono due di questi pali solidi – il riferimento è alle “bricole” site nella laguna di Venezia – che possiamo porre nella comunione con i Vescovi, con Pietro e sotto Pietro».

Tre le parole-chiave, attraverso cui Scola, delinea il senso di questo auspicio. La prima –  “amministratori” – tratta dalla Lettera paolina ai Corinzi, la seconda –“prima” – appena ascoltata nella Lettura di Geremia. «Ricordiamoci sempre che c’è un solo sacerdote che è Cristo Gesù e che noi tutti siamo solo amministratori dei Misteri di Dio. Il nostro egocentrismo dimentica troppo spesso questo essere “mandati” e, appunto, la nostra unica missione che è far brillare sul volto sacerdotale nella nostra azione la presenza del Volto santo di Cristo. Questo ci è rende liberi, davanti ai nostri limiti e anche ai peccati».

Come si spiega che nel 35/40% dei casi ancora ci siano proteste o discussioni per il cambiamento di un parroco o che talvolta il Vescovo debba chiedere la disponibilità a più preti per avere un ministro nuovo in una parrocchia, ricevendo dei rifiuti?, si chiede l’Arcivescovo polemicamente, ma solo per fare chiarezza, spiega. 

«Significa che, nel quotidiano, non siamo ancora capaci di far passare la Chiesa nella sua integralità. La grande parole “prima” che leggiamo in Geremia – “prima ti ho conosciuto….prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato” – condensa la vocazione alla missione»

Missione che, oggi, corre il grave pericolo del dualismo, di non riconoscere l’unitarietà tra preghiera, i doveri della vita sacerdotale e l’azione. «Spesso le nostre iniziative concrete, pur lodevoli e belle, non hanno forma “cristica”, proprio per questa mancanza di unità», nota

 E, infine, il Cardinale una consegna a tutti i presenti, attraverso il tema «tanto caro a San Giovanni XXIII, del Pastore che è padre». .

«Dobbiamo realizzare questa paternità con i nostri fedeli secondo una modalità realistica, ossia inerente alla trama di circostanze e rapporti che la Provvidenza ci invia. Per questo bisogna avere realismo nel dosare le occasioni di condivisione – non si può essere sempre ovunque –, ma la paternità deve essere sostanziale, la liturgia deve essere il simbolo della nuova parentela con il Signore che nasce dal dono dell’Eucaristia. Nella Messa, specie domenicale, emerga tale nuova paternità».

Poi, dopo la Professione di fede, il Giuramento di fedeltà nell’assumere l’ufficio da esercitare a nome della Chiesa – nel quale i quarantatré parroci e responsabili hanno posto le mani sui Vangeli, invocando l’aiuto del Signore – e la lettura del Decreto di immissione in possesso, ancora un ultimo augurio.