Sirio 26-29 marzo 2024
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Milano

Scola: «Non si può separare la domanda di salute del malato dalla sua richiesta di salvezza»

Il Cardinale ha concluso con il suo intervento, il convegno internazionale della Consociazione delle Associazioni nazionali infermieri. Curate l'integralità dell'uomo, ha raccomandato a tutti gli operatori sanitari presenti

di Annamaria BRACCINI

11 Settembre 2015

È stato il cardinale Scola a concludere la due giorni di Lavori che, presso l’Auditorium del Museo “Leonardo da Vinci”, ha visto riuniti gli infermieri per il convegno internazionale promosso dalla Consociazione nazionale delle associazioni infermiere/i (Cnai), sul tema «Il contributo degli infermieri per nutrire il pianeta». Una delle iniziative nazionali e internazionali programmate con il comune logo di «Nurses4Expo», in modo da inviare un messaggio a favore della salute dei cittadini e della maggiore valorizzazione della figura professionale dell’infermiere. Introducendo l’incontro, Cecilia Sironi, presidente della Consociazione – dopo il benvenuto porto all’Arcivescovo dal direttore del Museo, Fiorenzo Galli – parla, infatti, «di come gli infermieri possano fare la differenza per nutrire il pianeta e di quanto sia necessaria energia  spirituale e morale per unificare l’esistenza».
Dichiarato il riferimento a Expo e al tema della comunicazione del Cardinale, dedicata a “Che cosa nutre la vita” .
«La prima cosa da chiedersi», dice subito Scola, «è quale sia il caso serio, il punto chiave, il criterio essenziale per affrontare la questione della salute. A nessuno sfugge che malattia e cura abbiano a che fare con la salute e il nutrimento e, quindi, con l’uomo e con il creato».
In un simile contesto, la riflessione si situa, suggerisce il Cardinale, in una prospettiva pedagogica, «nella quale per parlare di salute e salvezza, un primo, necessario passo è quello di ripensare l’uomo». «Ripensare e “ripensarci” come persone mette in campo la questione di quale visione umana sostiene e guida l’arte terapeutica. In ultima analisi si tratta – scandisce -, di interrogarsi su chi sia l’uomo, o meglio, come diceva Leopardi, su “io che sono”».  
E se il dolore è l’esperienza nel soggetto della minaccia e della decurtazione della vita fisica e la sofferenza è la stessa esperienza nella vita spirituale, l’interrogativo è sempre l’uomo con le sue tante tragedie. «Le sventure, sia improvvise sia stabili, specie di fronte al dolore innocente, sono il catalizzatore del male multiforme che non a caso il Vangelo chiama “legione”».
Insomma, come scriveva sant’Agostino, solo l’uomo rimane la “magna questio”.
«Occorre affrontare la questione sociale del compimento dell’uomo.
Domandiamoci cosa vuole il paziente quando chiede la salute, quando la malattia toglie, per così dire, la sordina al nostro cuore strutturalmente limitato e fragile», spiega ancora il Cardinale all’uditorio attento a ogni sua parola.
«Il malato chiede a voi operatori sanitari di vivere, ma cosa si trova al centro di questa richiesta? È la parola salvezza, che, sola, riesce a rispondere fino in fondo alla domanda su cosa nutre la vita.  La risposta al paradosso dell’enigma che è l’uomo, è la salvezza, cioè mettersi al sicuro, il durare per sempre. In se stesso e in ogni suo atto, l’uomo è “uno” di anima e corpo, nella sofferenza e nella malattia, nello spirituale che si esprime attraverso il corporale e viceversa».
Per questo, cogliere e accogliere appunto la richiesta di salute, guarigione e salvezza è fondamentale e carico di conseguenze per gli operatori sanitari e per la società. «Potremmo dire che la cura, l’arte terapeutica, è una pratica emblematica di quell’ecologia integrale per cui è necessaria la conversione».
Nella consapevolezza che l’uomo è pienamente realizzato solo se è in relazione con se stesso, con il creato e con Dio, è, allora, evidente che anche la cura si inserisce in quella ecologia integrale che indica papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato si'”. Intesa così, la medicina non si riduce solo, come è ovvio e sarebbe sempre auspicabile, a una serie di tecniche.
«La parola cura, infatti, è più espressiva del termine terapia che, a sua volta, è più ampio dell’atto clinico. Nel contesto della cura ogni atto clinico troverà il suo ruolo di veicolo, di segno dell’arte terapeutica. La medicina è un insieme di scienze che si concentrano in un’arte. Ci si prenderà cura della salute, perché interessa anche la salvezza. In questo, il malato, i parenti, gli operatori e i volontari sono soggetti tutti ugualmente attivi a pieno titolo», osserva l’Arcivescovo che aggiunge: «per definire la professione di operatore sanitario occorre tenere presente le tre dimensioni di cura, arte terapeutica, atto clinico, senza dimenticare che la vera salvezza è solo in Dio».
Il riferimento è alle “situazioni limite” come lo stato vegetativo, anche se ormai non viene più definito così tecnicamente, e ai malati terminali.
«Spesso, davanti a tali condizioni, ci smarriamo e sembriamo non comprenderle. La scienza medica è chiamata a tentare di far regredire la malattia e la morte, ma senza mai dimenticare che queste due dimensioni non possono essere negate in una visione integrale della persona. La cura degli stati vegetativi va valutata senza mai cadere negli opposti eccessi dell’accanimento o del disinteresse»
Altra è – per Scola – la questione dei malati terminali, «perché qui si apre il grande interrogativo sull’eutanasia e sull’accanimento stesso».  
«Per questo le cure palliative, come interventi attivi e globali che rispettano la vita cercando di mantenerne la qualità fino alla fine, sono così importanti». L’invito è a tenerne il debito conto, anche «perché non pochi studi hanno dimostrato che la richiesta di eutanasia e di suicidio assistito dipende in notevole misura dall’atteggiamento rispetto alla vita dei curanti e dei parenti attorno al malato». Ma per vedere la cura come emblema dell’ecologia integrale, è cruciale, appunto, una conversione e una revisione degli stili di vita (al plurale, perché sono molti) e dei comportamenti personali e collettivi.
«Un dato – quest’ultimo – che è indistinguibile dall’educazione. I nuovi stili di vita o saranno integrali o semplicemente non saranno, perché non è più possibile una scissione tra il personale e il sociale. Attuare nuovi stili significa perseguire la vita buona ai due livelli nei quali siamo chiamati a coltivare la verità della persona nei suoi rapporti primari e per il bene della società».
Vi è, quindi, una responsabilità personale per la propria salute e poi una responsabilità sociale, «perché la salute costa, ma non ha prezzo».
Allora, come salvare il bisogno integrale di salvezza, senza cadere in titanismi e fin troppo diffuse pretese di onnipotenza?
«Bisogna reintrodurre con forza, nel mondo della sanità come in quello dell’economia, la centralità del soggetto. La questione antropologica è molto semplice: ogni uomo gioca tutta la sua libertà negli affetti, nel lavoro e nel riposo come tre coordinate fondamentali che mettono in campo, attraverso la trama di circostanze e di rapporti, i dati dell’unità duale tra anima e corpo, tra uomo e donna, tra persona e comunità». «L’elemento relazionale è fondamentale, mentre oggi, in tanti ambiti scientifici, questo aspetto è trascurato se non negato. L’io è sempre decisivo per il vostro lavoro e l’io è sempre in relazione», conclude il Cardinale, rivolgendosi direttamente agli infermieri.
Da qui, la consegna: «La vostra e nostra domanda –  “io che sono” – deve essere sempre seria e insistita specie in una società sempre più plurale e, perciò, tendenzialmente conflittuale, dove dobbiamo vivere comunque insieme e quindi siamo chiamati a parlarci, narrarci. Se non diciamo con chiarezza chi siamo e ciò in cui crediamo, la difesa della vita dal suo inizio naturale alla morte, leviamo qualcosa alla società stessa. In una democrazia sarà, poi, il legislatore a dover trovare la strada, nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, per registrare cosa la società civile pensa e vuole».
Infine, un giro di domande e risposte, con la preghiera di molti intervenuti di aiuto e di sostegno su tali temi, da parte della Chiesa e la richiesta, nemmeno tanto velata, di un maggiore impegno dei sacerdoti tra le corsie.  «È vero», ammette Scola, «forse abbiamo anteposto la parrocchia, la pastorale giovanile e familiare che quella relativa all’accompagnamento sanitario. Non si tratta, tuttavia, solo dell’innegabile diminuzione del clero. Il problema serio anche in tale orizzonte, è la Comunità, perché è fondamentale che intorno al prete ci sia il fedele laico che costruisce la comunità. A Milano abbiamo virato in questa direzione da quindici anni, non mandando più il sacerdote, che magari non regge più la parrocchia, nel comparto sanitario. Abbiamo investito, invece, su energie giovani e preparate. L’insieme conta ed è molto significativo, ad esempio, per il volontariato. Certamente, la modalità con cui si affronta il problema del rapporto salute, salvezza è una cartina di tornasole per misurare la civiltà di una società, come testimonia il richiamo del Papa alla cultura dello scarto, per quanto riguarda gli anziani».