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Quaresima

Scola: «Senza la Croce
non siamo veri cristiani»

L'Arcivescovo ha presieduto in Duomo la Via Crucis con le prime tre stazioni: «Il Crocifisso rende stabile in noi la domanda del nostro cuore». L'invito al digiuno, alla penitenza, alla condivisione coi fratelli, alla sobrietà del cuore e della mente

di Annamaria BRACCINI

3 Marzo 2015

La «strana, potente fecondità della Croce» senza la quale, come disse papa Francesco all’indomani della sua elezione, «non siamo veri cristiani». È la Croce, quel “palo ignominioso” simbolo di ogni morte innocente – di ogni dolore vissuto nella vita, nelle personali sofferenze quotidiane o nelle grandi tragedie dell’umanità – ad annodare, come il filo d’oro, la riflessione del cardinale Scola nella prima delle quattro Viae Crucis da lui guidate in Duomo per il Cammino catechetico della Quaresima 2015, «Innalzato da terra, attirerò tutti a me».

La splendida espressione «di grandiosa universalità», tratta dal Vangelo di Giovanni al capitolo 12, è così il richiamo complessivo e di questa singola tappa, dal titolo «La condanna», per cui le migliaia di persone che gremiscono la Cattedrale – molti arrivati in anticipo per ascoltare l’elevazione musicale eseguita dal maestro Vianelli – vivono le tre prime Stazioni. Ad animare la serata sono stati invitati specificamente i fedeli delle Zone pastorali IV (Rho) e VI (Melegnano), con i loro rispettivi Vicari episcopali, Citterio e Cresseri, e gli aderenti ai Movimenti dei Focolari, delle Acli, del Rinnovamento nello Spirito Santo e di Alleanza Cattolica, con i loro Assistenti ecclesiastici. Una quarantina di loro portano la croce nelle prime due Stazioni percorrendo la navata centrale del Duomo per tutta la sua lunghezza, fino ad arrivare alla terza, quando è l’Arcivescovo a prendere tra le mani il semplice e grande legno.

Si prega, si ascolta la Parola, si fa silenzio e si cantano le melodie meditative; dagli attori Luisa Oneto e Fabio Sarti vengono lette le testimonianze di Thomas Stearns Eliot, di San Tommaso d’Aquino e di Paolo VI. Proprio dalle parole del Beato, prende avvio la riflessione del Cardinale. «Siamo degli esteti, siamo degli avidi di bellezza e di felicità, siamo istintivamente dei gaudenti e troppo spesso dimentichiamo i fratelli miserabili e infelici», scriveva Montini e, allora, nota il suo successore sulla Cattedra di Ambrogio e Carlo: «Tutte le volte che ripetiamo questo benefico atto sulla via della Croce, soffriamo una frattura del cuore tra l’estetismo della nostra vita e l’essere in Duomo o nel nostro prendere parte a questo gesto benedetto anche da casa. Eppure, sappiamo bene che, se releghiamo gli eventi della Passione della morte e della risurrezione di Gesù nel passato, essi non possono salvarci. Gesù ci salva perché è contemporaneo a noi, è Lui che ci parla direttamente dalle Scritture». Chiaro il monito a «uscire dalla nostra abissale distrazione» per «giocarsi qui e ora con Cristo, comprendendo a pieno il senso vero della Croce che è «portare frutto».

Anche se «è umanamente comprensibile che ci si scandalizzi per la Croce in tutte le sue forme, ogni giorno», occorre «guardare in faccia la nostra croce quotidiana, il dolore». Con quell’attrattiva al Crocifisso di cui parla Giovanni, che non è ovviamente un’attitudine masochistica: «Nulla è più lontano dalla fede cristiana di questo atteggiamento involuto, nulla di più lontano di ciò che aveva sostenuto Nietzsche quando, esprimendo tutto il suo disprezzo, aveva definito la Croce “l’albero più velenoso di tutti gli alberi”». Al contrario, la forza attrattiva di Cristo sulla Croce è la forza del dono totale di sé per un amore vero che sempre ha dentro la rinuncia e il sacrificio, «come crogiolo che ne verifica l’autenticità». Così come è stato per il Signore «sarà anche per noi, nei rapporti di preferenza e di estraneità, nelle circostanze favorevoli o dolorose», che formano la vita. Il pensiero va a Claudel, al martire del nostro tempo Shahbaz Batti, ucciso esattamente quattro anni fa e a tutti coloro che, cristiani, uomini delle religioni che cercano la giustizia, soffrono la persecuzione.

E se, ha detto Eliot, «Bestiali come sempre, egoisti come sempre» – «ogni giorno lo vediamo con i nostri occhi, partendo anzitutto, da noi stessi» – siamo, tuttavia, chiamati «a riprendere la marcia sulla via illuminata dalla luce», è questa la capacità di ripresa dei cristiani. Una ripresa che giunge fino «all’edificazione di un società dal volto umano». È «la marcia inarrestabile dell’uomo salvato a dispetto del suo essere negativo», è la bellezza della luce che rompe ogni tenebra, come splendidamente mostra la tela di Simone Peterzano, Cristo nell’orto, posta per l’occasione sull’altare maggiore come icona della Prima Via Crucis. Immagine della luce che si irradia da un Cristo sorridente e che squarcia la notte, ormai oltre la sofferenza. Quel «dolore che, come uomini, specialmente quando è cosciente, quando è disonorato – pensiamo a tutti gli ammalati negli ospedali o che abbiamo in casa, a chi è nell’ombra della morte -, quando è coperto di crudeltà, ci fa spavento», e di fronte al quale, come Pilato, «scappiamo», tentati di non vedere il «nostro peccato che non è meno acuto del dolore fisico», perché, osserva Scola, «ci indigniamo facilmente, ma con altrettanta facilità tendiamo a battere la ritirata». E, invece, l’aiuto del Signore a non abbandonarci mai, a «chiamarci se fuggiamo»: «Lui stesso, caduto e rialzatosi, è la nostra forza, Lui cade con noi» come ci ricorda San Tommaso, «Attirami se ti resisto, rialzami se cado». Tale è il “cuore” della morale cristiana «che punta a una grandezza che non è nelle nostre forze, ma che l’uomo della Croce, dell’orazione nell’orto, ci procura. La figura compiuta del cristiano è la ripresa che il Crocifisso permette». Da qui l’importanza «del digiuno, della penitenza, della condivisione con i fratelli, della sobrietà del cuore e della mente e, dunque, dello stile di vita. La misericordia che Dio ci offre ogni mattina non è l’impeccabilità, ma la ripresa».

Infine risuona tra le navate, in un silenzio perfetto, la preghiera composta dallo stesso Arcivescovo: invocazione al Figlio di Dio, perché ci liberi dal terrore della morte e ci rialzi «ogni volta, come hai fatto instancabilmente fino a ora nella nostra vita finché saremo sempre con te». «Camminiamo in Quaresima nella consapevolezza che il Signore ci sta attirando a sé. Questo ci rende pieni di fiducia, al di là dei nostri peccati, limiti, delle fatiche, perché il Crocifisso rende stabile in noi la domanda del nostro cuore. Nulla di negativo ci può distogliere da questo abbraccio», dice ancora una volta il Cardinale a conclusione del Rito, al termine del quale i fedeli sono invitati a contribuire aiutando i cristiani della Nigeria e il Fondo Famiglia-Lavoro.

 

La Via Crucis andrà in onda in replica su Telenova 2 venerdì alle 21 e sabato alle 7.15.

 

Quella luce
che squarcia
le tenebre

La luce e le tenebre, dipinge Simone Peterzano in questo suo Cristo nell’orto, “icona” che accompagna la prima tappa dell’itinerario catechetico di Quaresima.
Le tenebre che tutto avvolgono, nella notte alla vigilia della Passione. Le tenebre in cui Giuda è entrato, uscendo dal Cenacolo, lasciandosi come risucchiare dalla seduzione del male, deciso a tradire colui che gli è stato maestro. Le tenebre che nascondono gli sgherri, là sullo sfondo, pronti a catturare l’innocente, traditi solo da una fiaccola e dai bagliori sulle loro metalliche armature.
Eppure anche la luce. La luce pallida e timida della luna, che assiste impotente allo scatenarsi degli eventi. E soprattutto la luce vivida, abbagliante che già squarcia le nubi, che investe Gesù, che è Gesù. Gesù che nel Getsemani, lasciato solo anche dai discepoli più amati perché vinti dal sonno, «triste fino alla morte» prega dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!». E che tuttavia, come vediamo in questo smagliante dipinto della Quadreria Arcivescovile (oggi al Museo Diocesano), già allarga le braccia nel dono di sé, nella consapevole accettazione del sacrificio, mentre le sue labbra proclamano: «Sia fatta la tua volontà» (Matteo 26, 42).
La luce e le tenebre. Ecco, dunque, dove Michelangelo Merisi detto il Caravaggio ha preso forse la sua prima ispirazione: proprio da quel Peterzano che si firmava «allievo di Tiziano» e che gli fu maestro a Milano negli anni dell’adolescenza. Ma un’intuizione che poi seppe sublimare in un’arte profondissima e insuperata.
Luca Frigerio