Sirio 26-29 marzo 2024
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Riflessione

Scola: senza lavoro l’io si può ammalare

Riportiamo l’articolo dell’Arcivescovo pubblicato da “Il Sole 24 Ore” sabato 26 luglio: «Tutte le istituzioni sono chiamate a farsene carico, ma nessuna iniziativa istituzionale può sostituire quella della persona»

del cardinale Angelo SCOLA Arcivescovo di Milano

28 Luglio 2014

Per Freud l’adulto è colui che sa lavorare e sa amare. Affetti e lavoro, insieme al riposo, sono dimensioni costitutive dell’esperienza umana universale: la sanità dell’io domanda che siano vissute in unità ed equilibrio.

Ma se all’uomo manca la “materia prima” perché queste non restino pure potenzialità e si realizzino, se – per stare nel tema di oggi – trovar lavoro o mantenerlo è un’impresa sempre più ardua, il suo io ne patirà le conseguenze, fino ad ammalarsi. Purtroppo non passa giorno senza che la cronaca ci descriva i sintomi, a volte talmente pesanti da diventare irreversibili, di tale malattia. Non basta, tuttavia constatare il dato; occorre capirne la causa. Perché il nesso tra lavoro e affetti è inscindibile? Basta gettare uno sguardo sull’esperienza che tutti, senza distinzione, facciamo in proposito. Qual è il primo e più elementare scopo del lavoro? Mantenere sé e i propri cari. Dire di qualcuno che è un “mantenuto”, soprattutto nelle nostre laboriose terre lombarde (ma non solo), è un insulto. Il lavoro è espressione pratica essenziale degli affetti fondamentali dell’uomo. Se manca il lavoro, se manca la possibilità reale di provvedere ai bisogni di coloro che amiamo, rischiamo di sentirci “incapaci” di amare veramente.

I più esposti al contagio di quella che ho definito una vera e propria “malattia” dell’io sono i giovani. Per loro la mancanza di lavoro può, inoltre, implicare l’impossibilità di guardare al futuro e costruire una famiglia. E un amore che non ha davanti a sé il futuro, un cammino possibile di condivisione e di fecondità, può crescere e maturare?

Il recente Rapporto pubblicato dall’Istituto Toniolo parla del 26% degli italiani tra i 15 e i 29 anni che vivono in condizione di Neet (Not in Education, Employment or Training, cioè non impegnati né a scuola, né al lavoro, né in un’attività formativa). Purtroppo però, ed è allarmante, molti allo stato di Neet si rassegnano fin troppo facilmente; in un certo senso possono perfino accomodarvisi. Se, da una parte, sanno di poter contare sempre sui familiari – da noi la famiglia resta ancora il primo e più solido “ammortizzatore” sociale -, dall’altra questo indispensabile sostegno può trasformarsi in una sorta di acquiescenza deresponsabilizzante.

Così c’è il rischio di finire in un circolo vizioso, restando intrappolati in questa condizione di inattività che fa scadere le motivazioni, deteriora le competenze e perciò restringe ulteriormente le possibilità di reinserirsi con successo nel mondo del lavoro.

Ma, alla lunga, questa situazione diventa insostenibile. Ne è spia eloquente un altro dato dello stesso Rapporto Giovani: mentre la gran maggioranza dei “non-Neet” si dichiara abbastanza o molto felice, in più della metà dei Neet il valore precipita a poco o per nulla felice.

Come affrontare questo drammatico risvolto della crisi? Non certo con un atteggiamento querulo, che si limiti a dar spazio alla recriminazione, né con il capo rivolto all’indietro a rimpiangere il tempo passato. Ostinarsi a guardare e ad affrontare il lavoro con i vecchi schemi mette fuori gioco. Inoltre è lo stesso contesto di globalizzazione in cui siamo inseriti a chiederci di essere sempre di più aperti al nuovo. Per esempio, a lavorare con persone diverse da noi per lingua, cultura, etnia, religione, a risolvere problemi e a incontrare situazioni diverse da quelle per cui ci si era preparati. Parole come flessibilità e mobilità, da non confondere mai con precarietà, che fino a dieci anni fa erano viste con paura e sospetto, oggi sono entrate a pieno titolo nel linguaggio di tutte le politiche del lavoro. E a questo le nuove generazioni, per natura e per formazione, sono molto più pronte di quelle dei loro padri.

Occorre ri-fondare una cultura del lavoro. Imprenditori e sindacati, economisti e politici… tutte le istituzioni che hanno a che fare con il mondo del lavoro sono chiamate a farsene carico. Ma non c’è iniziativa istituzionale, per quanto lodevole ed efficace, che possa sostituire l’iniziativa della persona. È questo il “generatore”, primario e imprescindibile, di ogni cambiamento. E il primo e più radicale è il cambiamento di mentalità (la metànoia dei classici), cioè di posizione della ragione e della volontà davanti a ciò che accade.

Come ho già avuto modo di osservare, tutte le circostanze, anche le più difficili e contraddittorie, non sono fuori dal disegno buono di un Padre fedele e ostinato nell’amare i suoi figli. Da qui derivano due conseguenze imponenti e semplici a un tempo:
1. La realtà che ci è data da vivere, così come ci è data, non è mai ultimamente nemica. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?».
2. Come in ogni situazione umana, anche in quella del lavoro la dignità sta nel soggetto e non nell’oggetto. Ogni lavoro se svolto nel rispetto del valore e della dignità della persona, è nobile. Questa umile certezza rende tenaci nella speranza e costruttori di futuro.