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Andare al cimitero non porta sfortuna!

Di morte bisogna parlare, in famiglia e all'oratorio: per apprezzare di più la vita, per familiarizzarsi con la grande speranza, che è la Risurrezione

4950 - per_appuntamenti Redazione Diocesi

23 Novembre 2009

di Vittorio CHIARI

Le castagne dopo la visita al Cimitero: era una tradizione dell’Oratorio. Si andava tutti insieme in processione con i nostri catechisti. Poi, cento metri prima dell’ingresso, il Don intonava il Rosario ed entravamo pregando nel Camposanto. Una visita alla tomba dei preti, a qualche oratoriano morto giovane, il pensiero finale del Don e poi, fuori, le immancabili caldarroste! Si tornava a casa contenti ed alla mamma che chiedeva: “Cosa hai fatto oggi all’oratorio?”, rispondevamo: “Siamo stati al Cimitero!”.

Oggi non ci si va più: al Camposanto, alla Messa, c’erano solo adulti, anziani, qualche ragazzino accompagnato dai genitori. I ragazzi non hanno paura degli spiriti delle zucche e delle streghe di Halloween ma disertano il cimitero. Porta sfortuna, dicono!
Ci vuole un evento: la morte di un amico o di un’amica, di un proprio parente… Si scontrano allora con il mistero della morte, ma sono pronti a dimenticare la sera stessa, se invitati ad una festicciola di compleanno o in discoteca.

Eppure di morte bisogna parlare, in famiglia e all’oratorio: per apprezzare di più la vita, per familiarizzarsi con la grande speranza, che è la Risurrezione. È la Buona Novella che Gesù è venuto a portarci, Lui che è risorto perché anche noi risorgessimo.

All’Oratorio, da ragazzo, mi hanno insegnato la solidarietà con chi è colpito da un lutto in famiglia: la visita ai parenti, la partecipazione alla veglia di preghiera, al funerale. “È nel dolore, mi diceva il mio Don, che si manifesta il valore di un’amicizia”.
Ci insegnava pure quali passi compiere quando muore un familiare: quando si aggrava, chiamare il prete per l’amministrazione del Sacramento dell’Unzione degli infermi. Da ragazzo si andava in modo solenne dal malato: con la veste di chierichetto, il parroco in cotta e stola portava con sé il Santissimo e la gente, al nostro passaggio, faceva un segno di croce, qualcuno invece toccava ferro o incrociava le dita.

Era quasi minuzioso il mio don in questa preparazione che noi ascoltavamo senza le paure e le superstizioni di oggi. La mamma non andava dal prete per sgridarlo e dirgli che non erano argomenti da trattare con i giovani come quella mamma che era venuta da me, protestando ad alta voce, perché avevo mostrato ai ragazzi delle diapositive dei poveri del Mato Grosso, una delle quali mostrava il volto di un ragazzo morto, dal volto quasi scheletrico.
L’ho ascoltata con pazienza e poi le ho chiesto quante ore suo figlio passasse davanti alla TV, a quante morti avesse assistito in quelle ore. “Sì, ma quelle sono per finta, cinema, non morti vere!”. Quasi si vantava di non aver parlato di morte a suo figlio: era troppo piccolo, a 12 anni, per affrontare un argomento così triste, così angoscioso!

Personalmente sono contento di questa preparazione alla lontana, a casa, in oratorio, che Don Bosco chiamava “Esercizio”, allenamento alla buona morte: ogni mese, partecipavamo alla Messa, ci confessavamo e facevamo la comunione “come fosse l’ultima della vita”. Uscendo di chiesa, c’era l’attesa distribuzione del panino con salame o mortadella, per sottolineare il clima di festa, che portava in noi questo Esercizio. Non era qualcosa di funereo, ma un invito a vivere bene la vita per morire bene, quando il Signore ci avrebbe chiamato.

Oggi questo Esercizio mensile si può chiamare in modo diverso, il linguaggio deve essere adeguato ai ragazzi e alle ragazze d’oggi ma si deve parlare loro della vita, del per chi vivere, del come vivere e cosa succede quando la vita si interrompe per entrare in un’altra Vita: “Senza dubbio risusciteremo, senza dubbio ci rivedremo e con gioia e allegrezza ci racconteremo tutto il passato… Ah, quanto sarà bello”.

Nessuno dei miei ragazzi sapeva che era una frase pronunciata da Alioscia in “Fratelli Karamazov” né chi era F. Dostoevskij, l’autore del celebre romanzo, ma era piaciuta loro.
Me lo sottolineavano al termine della Messa per i Defunti, mentre addentavano la buona focaccia, che avevo distribuito per “assaporare” la bellezza della Vita che va oltre la morte! Non era uno dei cibi succulenti di cui parlava il Profeta Isaia, nella visione del Banchetto sul monte, ma i ragazzi l’hanno gustata lo stesso, chiedendo il “bis”.