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Politica

Il caso De Falco alla luce della Costituzione

Senatore espulso dal M5s perché si è astenuto dal votare la legge finanziaria

di Gianfranco Garancini

17 Gennaio 2019

Gregorio De Falco è passato negli annali della cronaca del nostro Paese per essere stato quel capitano di porto che, naufragando la Costa Concordia dello sventurato comandante Schettino avanti Pisola del Giglio per una dissennata manovra ed avendo il comandante prontamente abbandonato la nave mentre stava affondando, imperiosamente ordinò a quest’ultimo – con linguaggio esplicito, ma inutilmente – di tornare a bordo, ad adempiere ai suoi doveri di comandante. Andò come andò, e le numerose vittime di quello sconsiderato naufragio saranno lì per sempre a testimoniare l’importanza del senso di responsabilità.

Al De Falco quel suo exploit di autorevolezza e di senso del dovere non portò bene: subì una serie di trasferimenti, che sembrarono avere come scopo quello di toglierlo da ruoli operativi e di controllo e governo delle eventuali emergenze. Fu candidato – come vedette mediatica prima ancora che politica – dal Movimento cinque stelle, e risultò eletto al Senato della Repubblica.

Qualche giorno fa è stato espulso dal M5s perché si è astenuto dal votare la legge finanziaria per il 2019, arrivata in mano ai senatori all’ultimissimo minuto, al termine di una serie infinita di aggiunte, cancellazioni, rimaneggiamenti, ricalcoli, in un clima di estrema tensione, pressoché interamente al di fuori del Parlamento: «Avremmo dovuto votare cose che non avevamo nemmeno letto», ha spiegato. Ma era già in fama di eresia, essendosi rifiutato di votare il cosiddetto Decreto sicurezza, questa volta per esplicite ragioni di dissenso con i nuovi assetti normativi relativi al trattamento (o al rifiuto di trattamento) di alcuni diritti sanciti per gli stranieri dalla stessa Costituzione repubblicana. Il commento di Gregorio De Falco alla propria espulsione dal M5s è stato secco e diretto, come nello stile del personaggio: «Non c’è democrazia, solo ordini da eseguire».

E qui sta il punto (lasciando da parte per un momento le questioni interne al M5s). L’articolo 67 della Costituzione repubblicana stabilisce che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», riprendendo quel divieto di mandato imperativo che – narrano gli storici – era stato teorizzato ed espresso per la prima volta dall’anglo-irlandese Edmund Burke nel suo discorso agli elettori di Bristol in occasione delle elezioni alla Camera dei Comuni del 1774, ripreso poi dalla Costituzione francese del 1791 (su spinta del Sieyès), e finito anche nel sabaudo Statuto di Carlo Alberto (articolo 41), cancellato solo dal fascismo. Nel Contratto per il governo del cambiamento (18 maggio 2018) ci si propone di «introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari»: ma anche nell’attuale opposizione non mancano voci favorevoli (prima di tutte quella di Silvio Berlusconi), specie di politici di estrazione sindacale. In ragione della cosiddetta libertà di mandato (sancita dall’articolo 67 della Costituzione, ma altresì dall’articolo 83 del regolamento della Camera e dall’articolo 84 del regolamento del Senato) ogni singolo parlamentare non solo può esporre il proprio sentire e le proprie opinioni a titolo personale, ma anche votare (motivatamente) in modo difforme rispetto alle indicazioni del proprio gruppo parlamentare e, in ultima analisi, del proprio partito o movimento. Al contrario il cosiddetto vincolo di mandato vincola (appunto) il parlamentare ad eseguire le indicazioni del proprio partito o movimento. La prassi della “fiducia tecnica” – dilagata negli ultimi anni e ormai continuamente applicata anche dall’attuale maggioranza che pure, quando era opposizione, soleva stigmatizzare sdegnata – ha acuito il vincolo di mandato e ha compresso la libertà dei parlamentari, dal momento che la “fiducia” (sovente su un “pacchetto” o “maxi-emendamento” governativo arrivato all’ultimo momento e da votare “a scatola chiusa”, pena il rischio – o la minaccia – di far traballare il governo) blocca e – come si dice – “blinda” qualsiasi proposta venga dai partiti o movimenti, senza possibilità di discussione. Chi discute, o anche solo chi dissente, fa la figura – e comunque viene tacciato – di eretico, inquisito e non di rado bruciato sul rogo mediatico dell’intolleranza e della conservazione. «Niente di nuovo», si dirà: sì, ma nel 2018 la democrazia parlamentare dovrebbe aver raggiunto una salda maturità e una tranquilla coscienza della ricchezza della diversità e della discussione.

In Assemblea costituente – mentre il principio della libertà di mandato sarebbe passato quasi senza
discussione nella seduta del 10 ottobre 1947, a testimonianza della sostanziale concordanza dei Costituenti su alcuni principi della democrazia liberale, dopo i “pasticci” dell’Italia “risorgimentale” e le durezze del fascismo – un altro principio che si può definire “democratico” fu discusso con veemenza, e non passò. Si legga l’articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». In sottocommissione si discusse animatamente su che cosa dovesse intendersi con l’espressione “con metodo democratico”: se tale espressione valesse “soltanto” nei rapporti esterni fra i partiti, caratterizzando di “democratica” solo la competizione politica, o se invece il “metodo democratico” dovesse valere, ed essere affermato e praticato, “anche” all’interno dei partiti (o movimenti). Il cattolico Costantino Mortati e il socialdemocratico Carlo Ruggiero presentarono un emendamento secondo il quale la norma costituzionale avrebbe recitato così: «Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale». Questo emendamento – che introduceva il concetto di democrazia interna nei partiti e movimenti politici – fu fieramente e sottilmente avversato da Palmiro Togliatti, esponente d’un partito comunista allora di strettissima osservanza sovietica, che sostenne che non si sarebbe potuto negare il diritto di esistere e di svilupparsi ad un partito «solo perché rinunzia al metodo democratico»… Fu approvato il testo originario: da allora resta stabilito e sancito che la democrazia interna non è un valore giuridico per i partiti e movimenti politici (mentre lo è per tutte le altre associazioni di diritto comune), e resta la contraddizione fra il principio dell’articolo 67 della Costituzione e questa interpretazione dell’articolo 49 della Costituzione, per la quale il “metodo democratico” vale solo nei rapporti esterni dei partiti e movimenti politici fra loro e non nei rapporti al loro interno con gli iscritti e nei confronti dei parlamentari.

Contraddizione che è ancora una volta esplosa nel caso di Gregorio de Falco. Vedremo come andrà a finire: certo è che chi rifiuta la dialettica interna e il dissenso delle idee e preferisce chi obbedisce in silenzio anche quando non capisce e non sa perché, fa mostra di rifiutare quelli che pensano, conoscono, decidono da sé; di temere, in fondo, quelli che – comunque – praticano ed esercitano la loro libertà.

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