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Politica

L’altro Luigi, una pagina dolente

Un vivace e pungente accostamento al “re sole” Luigi XIV dell’onorevole Luigi Di Maio

di Gianfranco GARANCINI

18 Giugno 2018

Si narra – ma, come si dice, se non è vera è ben inventata – che Luigi XIV, il “re sole” (non quello delle pasticche, neh…) ancora diciottenne, un giorno dell’aprile del 1655 arrivò con molto ritardo alla riunione del Parlamento francese (se ne facevano ben poche, il Parlamento contava poco, ma tuttavia rappresentava gli interessi dei francesi, e doveva per antica tradizione dare il suo parere obbligatorio anche se non vincolante sulla istituzione di nuove tasse) ancora vestito da caccia, e al vecchio presidente che gli faceva presente che aveva fatto «aspettare lo Stato», rispose: «Non lo sapete, monsignore? Lo Stato sono io». E per dimostrarlo decretò d’imperio la sospensione della seduta e della discussione. Il bello (il brutto…) era che aveva ragione: Luigi XIV, il “re sole”, è passato alle storie come l’iniziatore e il protagonista di un lungo periodo storico in Francia e poi in Europa che fu chiamato assolutismo, a significare che il sovrano incarnava, accentrava in sé tutto il potere pubblico di tutto lo Stato, legislativo, esecutivo, giudiziario. Faceva le leggi, le faceva applicare, e ne faceva giudicare il rispetto o la violazione: sempre in suo nome, sempre lui. Stato assoluto volle dire allora (e da allora fino ad oggi) che lo Stato con il suo potere, le sue leggi, i suoi giudici, i suoi apparati e le sue polizie, era sciolto, separato, del tutto lontano dal popolo, dai suoi bisogni reali, dalla sua vita: Luigi XIV, a riprova, si ritirò con tutta la sua nobiltà in quella immensa residenza, in quella sconfinata gabbia dorata – ma altresì fortilizio e baluardo di difesa contro il popolo – che fu Versailles, reggia e prigione, regno-nel-regno, contro-Stato e contro-regno, irreale limbo incantato in cui il re e la sua nobiltà stavano rinchiusi anche per evitare di essere contaminati dal popolo. Fu, quello di Luigi XIV, un regno non lunghissimo, ma risplendente: si svilupparono le arti e la gastronomia (ricorda Francois Vatel?), la profumeria e l’arte topiaria, ma anche la chimica (che faticosamente lasciava l’alchimìa che era stata) e l’architettura, la musica per intrattenere i pranzi e le cene (ricorda la storia dell’italiano Giovan Battista Lulli, o Jean-Baptiste Lully, Le Roi danse?), che andavano maturando il possente e raffinato stile barocco, e così via. E la gente? e il popolo? S’arrangiassero, purché non dimenticassero di pagare le tasse. Ci volle tutto l’illuminismo con i suoi chiaroscuri culturali; ci volle la rivoluzione borghese e violenta per cambiare la faccia dell’Europa, piano piano, a costo di perdite immani e sacrifici disumani, tre secoli di fuoco e fiamme, per portare la democrazia su questo sterminato campo di battaglie che è stato nel tempo il nostro continente.

Anche in Italia, fra alti e bassi, fra eroismi purissimi e infamie indicibili, alla fine del 1947 – quasi tre secoli dopo che quel Luigi aveva rivendicato con baldante arroganza che “lo Stato era lui” (e, quindi, tutto, i francesi e le loro ricchezze, il loro lavoro e le loro vite, era roba sua) – 556 “padri” costituenti arrivarono a dare al Paese una Costituzione democratica, in cui è ancora scritto con il sangue di tanti che l’Italia è una repubblica democratica, e che la sovranità appartiene al popolo, e che lo Stato e la pubblica amministrazione sono al servizio della Nazione, e cose così. In cui si dice che il Governo del Paese si chiama Consiglio dei Ministri: e minister deriva da minus, e nella nostra tradizione linguistica vuol dire servitore: per molti fu un insulto, e molti furono uccisi con l’accusa (che invece che infamante era però un viatico di laica santità) di “servitore dello Stato”. Fu questa -è tuttora questa – la grande lezione dei Costituenti: De Gasperi, Calamandrei, Moro, ci insegnarono che lo Stato siamo noi, noi cittadini, noi persone, noi soggetti di diritti, noi portatori di libertà e di ragioni di uguaglianza. Nel 2011 fu raccolta una serie di interventi di Piero Calamandrei che si chiamò, appunto, “Lo Stato siamo noi” («che, fa il nesci, eccellenza? o non l’ha letto? ah, intendo: il Suo cervel – Dio lo riposi – in tutt’altre faccende affaccendato a questa roba è morto e sotterrato»: Giuseppe Giusti, chi era costui?). Con la Costituzione repubblicana la sovranità del popolo non fu più la sovranità di pochi sui molti, o la sovranità di quelli “più-uguali-degli-altri” (ricorda Orwell, eccellenza?): con la Costituzione repubblicana la sovranità popolare fu il fondamento collettivo -senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali – di una democrazia per la quale lo Stato non era più di qualcuno, di pochi o di tanti, dei vincitori o dei vinti, dei ricchi o dei poveri, ma lo Stato era – è – di tutti, e tutti sono lo Stato.

Il giorno della festa della Repubblica un altro Luigi, forte di qualche ministro e di una immagine di potere, ha ripetuto (forse senza saperlo) la frase di quel giovane Luigi XIV di quasi quattro secoli fa: «Da oggi lo Stato siamo noi», ha detto il giorno della Repubblica, alla festa del suo partito/movimento, volendo significare (salvo smentite) che quel gruppo di votanti e votati, quel movimento vittorioso alle elezioni, impadronendosi del Governo era diventato il padrone dello Stato, lo Stato stesso. Non è così, e se così fosse (o si volesse che fosse) sarebbe un tradimento della Costituzione, dello spirito della nostra tradizione, della nostra unità di popolo, con fatica costruita o ancora da costruire, sulla scia di quell’ut unum sint o di quell’altro motto e pluribus unum che riecheggiano, insieme, la nostra tradizione cristiana, e la tradizione laica dell’antica lezione che, dall’Europa, era confluita, dapprima, nella Costituzione americana, e nello stemma nazionale dei tredici Stati originari degli Stati Uniti, del 1776, di quella cultura democratica che, fra i tanti, Alexis de Tocqueville – ma anche il milanese Luigi Castiglioni, o il napoletano Gaetano Filangieri – coltivarono con i loro diari di viaggio o con le loro riflessioni politiche e filosofiche. In questa tradizione, essere ministri non vuol dire impadronirsi dello Stato, ma essere al servizio del popolo. È una antica, nobile lezione che va imparata in fretta. Già un altro Luigi, Luigi XV, che aveva portato al culmine lo Stato assoluto, si era accorto che – se fosse saltato (e sarebbe saltato) quell’accentramento parossistico del potere in pochi (o tanti) “padroni” dello Stato – sarebbe arrivato una sorta di diluvio universale («après moi le déluge», dopo di me il diluvio, pare che abbia detto, parlandone con la fedelissima madame de Pompadour).

L’essenza della politica, del fare politica nelle e con le istituzioni, è servizio, e non potere o possesso. Lo impararono a loro spese (uno addirittura ci rimise la testa) i tanti Luigi di Francia. Lo ricordi, se può, il giovane Luigi nostrano.

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