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Testimonianza

I sogni di un calciatore senza una gamba

Diventa un libro la storia di Arturo Mariani. Gioca in Nazionale e ama la vita

di Marco TESTI

14 Dicembre 2015

«Sogno un giorno di poter partire ed esplorare il mondo, giocare altri due, tre, dieci Mondiali, e costruire una famiglia. Sogni che possono avere tutti, insomma».

Sono le parole di un calciatore che scrive un libro sulla sua vita. Gioca in difesa, perde, vince, conosce le amarezze e le gioie di quella carriera che un giorno dovrà finire, e sogna una vita come tanti per il dopo pallone. Una biografia di un giocatore di calcio, insomma, come ce ne sono state e come ce ne saranno finché il pallone sarà nella testa e nel cuore di miliardi di persone, nonostante le scommesse, le partite taroccate, gli scandali, le risse, i messaggi non propriamente educativi che da un po’ di anni provengono da quel mondo ancora così agognato dai giovani. Perché recensire allora un ennesimo libro di un ennesimo calciatore? La risposta è nella vita stessa del protagonista, che gioca con una gamba sola, perché l’altra proprio non ce l’ha, non ce l’ha mai avuta. Quando la mamma, allora in dolce attesa, si sottopose alla prima ecografia c’era stata infatti una sentenza nuda e cruda: «Al bambino manca una gamba, la destra».

Sì, avete letto bene. Il calciatore gioca senza la gamba destra, ed è in Nazionale, perché milita nella squadra italiana amputati.
Questa storia è raccontata ora in “Nato così. Diario di un giovane calciatore senza una gamba” (Edizioni Croce, 107 pagine), di Arturo Mariani, romano che ora vive a Guidonia, classe 1993. Arturo non è solamente la dimostrazione che lo spirito ha più potere sul corpo di quanto il determinismo scientifico ci voglia far pensare, ma è un’illuminante parabola di un ragazzo senza una gamba che invece di piangersi addosso, e ne avrebbe in realtà i motivi, si dedica agli altri, ironizza sul suo problema, lo sminuisce anzi, tutto proiettato com’è sulla sua attività sportiva, ma anche sull’orizzonte delle amicizie, degli affetti, della conoscenza del mondo.
Arturo esce ben presto dai rischi dell’autocompatimento perché si apre all’esterno e vi coglie la bellezza. Certo, registra anche i problemi, gli insuccessi, le incomprensioni, ma non permette mai che il negativo prenda il sopravvento. C’è sempre qualcosa che salva, che porta oltre il dispiacere di un giorno, e quel qualcosa non è solo l’aiuto esterno, ma una naturale volontà di conoscere, di migliorarsi, di fare. Certamente è aiutato dai suoi genitori, che gli hanno insegnato i valori cristiani della solidarietà e della fiducia in Dio, dai fratelli, dagli amici, ma senza quella determinazione naturale la strada sarebbe stata ben più difficile. Anche quando la sua squadra è chiamata a giocare all’interno del carcere di Rebibbia, Arturo guarda alle cose intorno con gli occhi di un viaggiatore interiore, che ha fatto del proprio problema uno strumento più affilato e sensibile di conoscenza profonda: «Per noi, ragazzi di “buona famiglia”, abituati alla comodità e alla libertà più assoluta, respirare quel senso di finito, di chiuso, dove l’aria scarseggia, dove gli sguardi assumono significati impalpabili, è qualcosa che lascia senza fiato. È un luogo dove il tempo si ferma. Dove i rumori diventano segnali. Sempre di richiesta di aiuto».
Ma il mistero più grande resta quello di come faccia un ragazzo senza la gamba destra a giocare a pallone con le stampelle, a dribblare, a fermare l’avversario, a segnare, nella Nazionale del suo Paese.