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Dakar

Non si può giocare con la morte

Quattro i morti nella 36ª edizione della corsa che si è trasferita in Sudamerica, pure mantenendo lo storico nome. Due giornalisti fra le vittime

di Leo GABBI

20 Gennaio 2014
Spain's KTM biker Marc Coma prepares for the start of the 10th stage between Copiapo, Chile and Chilecito, Argentina, January 12. (Natacha Pisarenko/Associated Press)

Per molti appassionati quella che si è chiusa da poche ore continua ad essere la corsa più affascinante del mondo: ancora una volta però la Dakar in salsa argentina si sta rivelando una strage di vittime, ben 4 sulle strade. Una mattanza che non colpisce soltanto più piloti e spettatori, ma si è allargata anche alla categoria dei giornalisti, due i deceduti in un colpo solo. Si tratta di Daniel Eduardo D’Ambrosio (51 anni) e Augustin Ignacio Mina (20): il mezzo sul quale viaggiavano si è ribaltato e poi è finito in un dirupo, e per i due non c’è stato niente da fare, mentre si sono salvati i due fotografi che erano con loro. Il 50enne motociclista Palante era invece stato dato per disperso e il suo corpo è stato ritrovato il giorno dopo: un po’ troppo per una gara dai confini estesissimi, ma che ogni anno predica di aver risolto i problemi di sicurezza. Invece Palante diventa la 23ª vittima fra i piloti nelle 36 edizioni di questa mattanza a due e quattro ruote, ma sono una sessantina le vittime in totale, tra spettatori, giudici, giornalisti e persino civili che non sapevano neanche dell’esistenza della gara, ma che hanno avuto la sfortuna di trovarsi sul suo tracciato.

Nata nel 1979 tra Parigi e Dakar, dal 2009, per motivi di sicurezza (pare un eufemismo, ma è così), la corsa si è trasferita in Sudamerica, pure mantenendo lo storico nome di Dakar, un evento che unisce passione per i motori, senso dell’avventura e del rischio, oltre a ingenti interessi economici, ma continua ad avere un prezzo in termini di vite umane che diventa ogni anno più insopportabile. Per molto meno in Italia venne soppressa una leggenda come la Mille Miglia, ma oggi il peso politico degli sponsor evidentemente impedisce che la giostra possa fermarsi. Solo per citare i concorrenti, Palante è il quarto a perdere la vita nella versione sudamericana del raid. Nel 2009 il centauro francese Pascal Terry morì per edema polmonare, mentre nel 2012 l’argentino Jorge Martinez Boero non ce l’ha fatta per le lesioni riportate in una caduta.

Lo scorso anno, nel passaggio della carovana tra Perù e Cile, il centauro francese Thomas Bourgin si andò a schiantare contro un’auto delle forze dell’ordine cilene. Un frullatore di vite che va avanti, nonostante gli appelli degli stessi piloti: dopo la morte di Palante, alcuni di loro hanno infatti puntato il dito contro gli organizzatori: «Ci stanno ammazzando – ha dichiarato l’argentino Pablo Copetti, che gareggia tra i quad (moto su quattro ruote, ndr) -. Nella terza tappa, da San Rafael a San Juan, hanno giocato con le nostre vite. Farci passare in alcuni punti è stata una pazzia, non so con quale criterio abbiano deciso il percorso». Eppure non tutti sono d’accordo: «La gente si lamenta perché era abituata alle edizioni facili, evidentemente si era dimenticata di cosa significasse correre in Africa – ha sentenziato lo spagnolo Nani Roma, leader tra le auto -: una Dakar è una Dakar, e la morte fa parte del gioco». No signori, non si può giocare con la morte, nessuno ha diritto di farlo con la sua, figuriamoci con quella degli altri: se non ce ne accorgiamo in tempo, sarà proprio lo sport a morire con noi.