Share

Il commento

Due filosofie in gioco

Calcio e rugby a confronto

di Leo GABBI Redazione

25 Novembre 2009

Non è tempo di falsi moralismi, ma qualche considerazione, avendo visto impegnate a livello così ravvicinato le Nazionali italiane di calcio e rugby, è possibile farla. Non fermiamoci però alle prestazioni e neppure al rendimento: una è la blasonata squadra campione del mondo, l’altra è la volenterosa incompiuta sempre alla ricerca del salto di qualità.
Eppure, nell’amichevole con la Nuova Zelanda, gli azzurri del rugby sembravano accompagnati da uno spirito nuovo, da un popolo che si è ammassato all’inverosimile a San Siro per tifare senza il solito stress, senza insulti agli avversari, con un trasporto evidenziato durante l’esecuzione dell’inno di Mameli che metteva i brividi. Nel calcio gli All Blacks siamo noi – ben 4 titoli mondiali e una storia leggendaria alle spalle -, eppure anche nelle più innocue amichevoli traspare tutta l’inquietudine di un movimento che ha smarrito l’età dell’innocenza.
Se nel rugby la gente gioiva e batteva le mani pur sapendo di dover soccombere contro i campioni neozelandesi, allo squadrone di Lippi, qualificato in anticipo per i Mondiali di cui è detentore, non viene perdonato nulla, come testimoniano i fischi gratuiti di Parma, o le continue invocazioni al “fantasma” di Antonio Cassano. Forse c’è un’alchimia che spiega questo diverso trattamento: c’è un salto culturale che premia passione e voglia di bel gioco per l’appassionato di rugby e che invece impone la vittoria e il culto del risultato a ogni costo per i fans del calcio.
Il paradosso è che a volte queste due figure coincidono, nel senso che a volte lo sfegatato di Milan, Juve o Inter si prende “una vacanza” immergendosi in un mondo, quello del rugby, che ricorda le partite all’oratorio, quando si giocava solo e sempre per il gusto di giocare. Se non fosse così non si spiegherebbe la crescente passione per uno sport che a livello internazionale non riesce ancora a ritagliarsi un posto al sole.
Se infatti si guardano le competizioni ufficiali dal 1998 a oggi, l’Italia del rugby ha vinto solo 10 delle 61 gare giocate, mentre resta il buio pesto nel Sei Nazioni, dove nelle 5cinque sfide dell’ultima edizione l’Italia ha rimediato altrettante sconfitte, incassato 170 punti e segnato solo due mete. Disfatte in serie, quindi, che però non hanno scalfito la passione di chi vive di pane e rugby: questo ritorno ai valori di base, alla lealtà di fondo, al terzo tempo come rito collettivo e mai forzato, sono il vero tallone d’Achille degli sport ricchi.
Anche nel rugby circola denaro, ma non al punto da determinare un limite di tossicità tale da stravolgerne ideali e carriere. Il gol che ha qualificato la Francia ai Mondiali di calcio, con l’evidente fallo di mano di Henry a favorirlo, è solo l’ultimo esempio di un malessere profondo. In certa misura, a causa dell’altro cancro dilagante, il doping, anche ciclismo e atletica leggera sono spesso caduti in tentazione, perdendo credibilità ed estimatori. Così, per molti, il rugby è diventata l’ultima riserva indiana dello sport in cui rifugiarsi. Non è tempo di falsi moralismi, ma qualche considerazione, avendo visto impegnate a livello così ravvicinato le Nazionali italiane di calcio e rugby, è possibile farla. Non fermiamoci però alle prestazioni e neppure al rendimento: una è la blasonata squadra campione del mondo, l’altra è la volenterosa incompiuta sempre alla ricerca del salto di qualità.Eppure, nell’amichevole con la Nuova Zelanda, gli azzurri del rugby sembravano accompagnati da uno spirito nuovo, da un popolo che si è ammassato all’inverosimile a San Siro per tifare senza il solito stress, senza insulti agli avversari, con un trasporto evidenziato durante l’esecuzione dell’inno di Mameli che metteva i brividi. Nel calcio gli All Blacks siamo noi – ben 4 titoli mondiali e una storia leggendaria alle spalle -, eppure anche nelle più innocue amichevoli traspare tutta l’inquietudine di un movimento che ha smarrito l’età dell’innocenza.Se nel rugby la gente gioiva e batteva le mani pur sapendo di dover soccombere contro i campioni neozelandesi, allo squadrone di Lippi, qualificato in anticipo per i Mondiali di cui è detentore, non viene perdonato nulla, come testimoniano i fischi gratuiti di Parma, o le continue invocazioni al “fantasma” di Antonio Cassano. Forse c’è un’alchimia che spiega questo diverso trattamento: c’è un salto culturale che premia passione e voglia di bel gioco per l’appassionato di rugby e che invece impone la vittoria e il culto del risultato a ogni costo per i fans del calcio.Il paradosso è che a volte queste due figure coincidono, nel senso che a volte lo sfegatato di Milan, Juve o Inter si prende “una vacanza” immergendosi in un mondo, quello del rugby, che ricorda le partite all’oratorio, quando si giocava solo e sempre per il gusto di giocare. Se non fosse così non si spiegherebbe la crescente passione per uno sport che a livello internazionale non riesce ancora a ritagliarsi un posto al sole.Se infatti si guardano le competizioni ufficiali dal 1998 a oggi, l’Italia del rugby ha vinto solo 10 delle 61 gare giocate, mentre resta il buio pesto nel Sei Nazioni, dove nelle 5cinque sfide dell’ultima edizione l’Italia ha rimediato altrettante sconfitte, incassato 170 punti e segnato solo due mete. Disfatte in serie, quindi, che però non hanno scalfito la passione di chi vive di pane e rugby: questo ritorno ai valori di base, alla lealtà di fondo, al terzo tempo come rito collettivo e mai forzato, sono il vero tallone d’Achille degli sport ricchi.Anche nel rugby circola denaro, ma non al punto da determinare un limite di tossicità tale da stravolgerne ideali e carriere. Il gol che ha qualificato la Francia ai Mondiali di calcio, con l’evidente fallo di mano di Henry a favorirlo, è solo l’ultimo esempio di un malessere profondo. In certa misura, a causa dell’altro cancro dilagante, il doping, anche ciclismo e atletica leggera sono spesso caduti in tentazione, perdendo credibilità ed estimatori. Così, per molti, il rugby è diventata l’ultima riserva indiana dello sport in cui rifugiarsi.