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Il gioco della vita

Storie di atleti olimpici alla luce di San Paolo nel nuovo libro di don Albertini

23 Luglio 2008

25/07/2008

a cura di Riccardo BENOTTI

«Ai lettori, oltre ad appassionarsi per i magici momenti che i nostri atleti sapranno offrirci, auguriamo di saper leggere, anche con l’ausilio di queste pagine, tra le righe del loro impegno, della loro passione, dei loro successi i valori che fanno grande non solo un atleta, ma l’uomo stesso: la fatica dell’allenamento, la disciplina, l’accettazione del limite, il superare con fiducia gli ostacoli, il non arrendersi nelle difficoltà, il saper vincere senza umiliare l’avversario, il saper perdere senza per questo sentirsi un perdente».

Con queste parole monsignor Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la Pastorale del turismo, sport e tempo libero, presenta il libro Storie a cinque cerchi. Dalle Olimpiadi una lezione di vita, scritto da don Alessio Albertini e pubblicato dalle Edizioni San Paolo. In vista degli imminenti Giochi Olimpici di Pechino 2008, il volume inaugura una serie di libri, promossi dall’Ufficio Cei, che contengono «riflessioni, sussidi, strumenti per l’animazione del tempo libero, turismo e sport nelle nostre Comunità ecclesiali».

Seguendo il calendario degli appuntamenti olimpici che prenderanno il via l’8 agosto, don Alessio Albertini racconta le storie di sedici atleti e ripercorre le loro gesta alla luce dell’insegnamento di San Paolo, cogliendo le lezioni di vita che lo sport insegna.

Storie di successi e delusioni, intense e commoventi, come quella del giapponese Kokichi Tsuburaya che nel 1964, a Tokyo, vinse la medaglia di bronzo nella maratona, diventando eroe nazionale. Ma l’eccessiva pressione che dovette sostenere e la consapevolezza di non poter esaudire la richiesta di un intero Paese che desiderava l’oro alle successive Olimpiadi lo spinsero al suicidio: «Quando l’assillo diventa il risultato, la vittoria a tutti i costi – scrive don Albertini – si crea una tensione eccessiva che influisce in maniera negativa sulla vita, sollecita agonismo non tollerato e in ogni modo non utile per vincere, impone gesti e comportamenti rigidi che procurano insicurezza e, alla fine, paura di non farcela».

Tra i tanti racconti di vita, significativo l’esempio di Emil Zapotek. Raggiunse l’apoteosi nell’edizione olimpica del 1952, con il primo posto in tre specialità e bissando la vittoria nei 10 mila metri ottenuta nel 1948. A rendere memorabile la sua impresa, però, fu l’amicizia con il collega Ron Clarke, cui l’oro olimpico era sempre sfuggito. Zatopek gli regalò una scatola contenente una delle sue medaglie d’oro e un biglietto: «Caro Ron, ho vinto quattro medaglie d’oro. È giusto che tu ne abbia una. Il tuo amico Emil». Sottolinea don Albertini: «Come nel mondo dello sport, così anche nella vita c’è una grande nostalgia di essere riconosciuti e accettati nella propria unicità».

Nomi e storie, vite che raccontano una dedizione che travalica la pratica sportiva per essere esempio nell’esistenza di ciascuno: Abebe Bikila, maratoneta due volte campione olimpico e modello di audacia; John Stephen Akhwari, il miglior ultimo classificato; Nadia Comaneci, ginnasta rumena simbolo della perfezione; Carl Lewis e Ben Johnson, eterni rivali nella lotta per non essere squalificati; Haile Gebreselassie, mezzofondista detentore di due record mondiali e impegnato nella lotta per il suo Paese; Dick Fosbury, atleta olimpionico di salto in alto con il coraggio di cambiare; Steve Ovett e Sebastian Coe, avversari sulla pista e amici nella vita; Mark Spitz, californiano nove volte medaglia d’oro nelle prove di nuoto; Ulrike Meyfarth, campionessa di salto in alto e di perseveranza dentro e fuori il campo d’allenamento; Alberto Juantorena, corridore cubano entrato nella storia per la sua tenacia; Daley Thompson, decathleta che seppe vincere e perdere con la stessa dignità; Larisa Latynina, ginnasta di fama mondiale con un esemplare amore per il sacrificio; John Ian Wing, studente diciassettenne che nel 1956 fece cambiare la marcia di chiusura delle Olimpiadi facendo sfilare i diversi Paesi partecipanti in un unico corteo.

E Derek Redmond, l’atleta che a Barcellona nel 1992 ottenne l’applauso di un intero stadio per aver tagliato per ultimo il traguardo. Alla partenza per i 400 m, Redmond era scattato con il tempo giusto e la gara stava procedendo nel migliore dei modi. All’improvviso, lo strappo: il tendine di Achille si lacera e Derek cade a terra. Ma la sua corsa non è finita e, con uno sforzo fuori dal comune, Redmond continua a percorrere la pista sul solo piede rimasto sano.

«L’atleta non riusciva più a correre, saltellava su un piede con enorme difficoltà, fino a che un uomo robusto saltò giù dalle gradinate e si mise al suo fianco per aiutarlo ad arrivare alla mèta: era suo padre, al quale Derek mise il braccio attorno al collo e appoggiandosi arrivò a tagliare la linea del traguardo».