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Non c’è pace per il Pirata

A quattro anni dalla scomparsa, due libri riaccendono il giallo sulla morte di Marco Pantani

5 Giugno 2008

14/02/2008

di Mauro COLOMBO

Era il giorno di San Valentino e la circostanza rese ancora più struggente il dramma di Marco Pantani. Il Pirata andò in fuga per l’ultima volta il 14 febbraio 2004 dal Residence Le Rose di Rimini. Nessun compagno di avventura, per lui, nessun tifoso a incitarlo. Solo il desolante contesto di una camera d’albergo affacciata sul mare d’inverno, tra avanzi di cibo, vestiti stropicciati e annotazioni febbrili scarabocchiate ovunque. Non ebbe bisogno di scattare, Pantani, per restare solo. Lo era già da tempo.

Una solitudine figlia della droga, ma soprattutto del progressivo distacco dal suo mondo, quello delle biciclette e delle corse. Il “Pirata” cominciò a morire il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando le analisi del suo sangue rivelarono valori tanto abnormi da provocarne l’immediata esclusione dal Giro d’Italia che stava dominando. Da lì la sua carriera e la sua vita non incontrarono più le amatissime salite, ma solo una lunga discesa senza freni.

Fu il ciclismo a emarginare Pantani o fu lui ad auto-isolarsi? Il Pirata non trovò nessuno realmente disposto ad aiutarlo, oppure fu lui stesso a non lasciarsi aiutare nella difficile ricostruzione dell’uomo, prima ancora che del campione? Nell’ambiente permangono entrambe le scuole di pensiero, accomunate però da una considerazione condivisa: tra quelle due date – 5 giugno 1999 e 14 febbraio 2004 – Marco non ebbe più pace.

E continua a non avere pace neppure oggi. A pochi giorni dal quarto anniversario della sua morte, l’uscita de Gli ultimi giorni di Marco Pantani, edizione italiana di un volume del giornalista dell’Équipe Philippe Brunel, torna a tingere di giallo le ore trascorse dal fuoriclasse romagnolo nel residence riminese.

Amico di Pantani, Brunel ha condensato i risultati di un’indagine condotta personalmente per tre anni. L’inchiesta ufficiale era pervenuta alla conclusione che il Pirata fosse deceduto in seguito a un’overdose di cocaina, cui era soggetto da tempo. Brunel ha evidenziato alcuni elementi rimasti oscuri: la camera del campione messa a soqquadro, le sue telefonate ai Carabinieri, il cibo cinese trovato nella stanza (Pantani non ne mangiava mai), la cocaina mischiata a mollica di pane, i graffi sulla faccia e il segno sul collo dell’atleta…

Il giornalista francese non arriva a conclusioni drastiche, ma fa sorgere il dubbio che le cose siano andate diversamente da come si è sempre pensato e che qualcuno avesse interesse a far tacere per sempre un personaggio ormai diventato scomodo e quindi difficile da gestire. Una tesi sposata anche dalla madre di Pantani.

Da sempre convinta che Marco sia stato ucciso e che l’inchiesta debba essere riaperta, la signora Tonina – aiutata dal cronista de Il Giornale Enzo Vicennati – ha rotto il silenzio e raccolto i suoi dubbi e le sue certezze in un altro volume, Era mio figlio. Un libro-memoriale che racconta Pantani dai suoi esordi giovanili fino ai trionfi da professionista e si conclude con un preciso atto d’accusa nei confronti del mondo dello sport, che prima “fabbrica” eroi e poi li distrugge..

Due libri che sono altrettanti atti d’amore: quello del tifoso, nel caso di Brunel, quello della madre, nel caso di Tonina Pantani. E al di là di ricostruzioni più o meno fondate e di verità più o meno accertabili, tra gli appassionati c’è ancora tanto amore per il Pirata. Per rendersene conto, basta seguire una qualsiasi tappa di montagna del Giro o del Tour: cartelli, striscioni o scritte sull’asfalto dedicate a Pantani non mancano mai.

Forse perché è stato l’ultimo campione capace di esaltare davvero le folle, all’epoca della sua doppietta rosa-gialla del 1998. Quanto è accaduto poi ha seminato dubbi, ma non ha cancellato quel delirio collettivo. Tornare con la memoria a quei giorni è forse il modo migliore per ricordare il Pirata.