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La star scomparsa

Michael Jackson, un volto in uno specchio

Tra le glorie del palcoscenico e i drammi della vita privata, l'immagine che si può ritrovare dell'artista oltre le polemiche di questi giorni

Saverio SIMONELLI Redazione

3 Luglio 2009

«Inizierò dall’uomo nello specchio, gli chiederò di cambiare i suoi modi di fare». Così cantava Michael Jackson, rivolgendosi alla sua immagine riflessa, in Man in the mirror, con la quale vinse uno dei tanti Grammy Awards della sua carriera e che nell’occasione – era il 1988 – eseguì assieme a un coro gospel. L’uomo nello specchio, con tutte le implicazioni simboliche che porta con sé – da Narciso al mito del doppio, fino a Dorian Gray – è non solo una canzone che esprime al meglio il talento compositivo, ritmico e vocale di Jackson, ma ne riassume fatalmente la parabola umana, quella di una personalità che al di là dei trionfi mondiali non è mai riuscita a trovare i modi giusti per avere ragione dello specchio dell’apparenza e a indossare come abito della realtà il sogno che da bambino derubato dell’infanzia aveva così splendidamente sublimato nella musica.
Senza scomodare interpretazioni psicanalitiche o dedicarsi al meschino scavo nelle vicende personali dell’uomo Jackson, è questa parabola tesa alla ricerca di una felicità irraggiungibile che oggi tocca tutti coloro che hanno amato la musica del Re del Pop. E la parabola, per sua natura, tende a sfuggire agli assi cartesiani, lasciando i terminali distanti e irrimediabilmente scissi: di qua l’uomo e lassù, nello specchio del sogno, l’artista.
Come artista Jackson ha donato tanto alla musica: è stato forse il primo nero a instillare le qualità della purissima melodia in una musica che è per natura pulsazione, ritmo, grido, gioia o lamento. Basta ascoltare gli attacchi folgoranti di alcune sue canzoni per capire come possedesse quel dono di pregnanza espressiva che è la sigla del genio, da Bach fino al jazz e al pop. Le sue canzoni sono una promessa di felicità che nei 4-5 minuti dell’ascolto si compie in maniera perfetta, anche grazie all’impeccabile veste commerciale che aggiunge quel tono di studiata piacevolezza adatta al pubblico dell’intero pianeta.
Rimaneva però un senso di dismisura, un qualcosa d’incolmabile tra la perfezione del giocattolo sonoro e la personalità sfuggente, ipocondriaca, sofferente dell’uomo. Una distanza acuita e esacerbata se possibile dal successo che, col suo manto di lustrini posticci, ma comodi da sfoggiare, rende ancora più intollerabile il ritorno all’Io, ai suoi conflitti non risolti, a quello che rimane da vedere nello specchio e che non ci dà pace. «Inizierò dall’uomo nello specchio, gli chiederò di cambiare i suoi modi di fare». Così cantava Michael Jackson, rivolgendosi alla sua immagine riflessa, in Man in the mirror, con la quale vinse uno dei tanti Grammy Awards della sua carriera e che nell’occasione – era il 1988 – eseguì assieme a un coro gospel. L’uomo nello specchio, con tutte le implicazioni simboliche che porta con sé – da Narciso al mito del doppio, fino a Dorian Gray – è non solo una canzone che esprime al meglio il talento compositivo, ritmico e vocale di Jackson, ma ne riassume fatalmente la parabola umana, quella di una personalità che al di là dei trionfi mondiali non è mai riuscita a trovare i modi giusti per avere ragione dello specchio dell’apparenza e a indossare come abito della realtà il sogno che da bambino derubato dell’infanzia aveva così splendidamente sublimato nella musica.Senza scomodare interpretazioni psicanalitiche o dedicarsi al meschino scavo nelle vicende personali dell’uomo Jackson, è questa parabola tesa alla ricerca di una felicità irraggiungibile che oggi tocca tutti coloro che hanno amato la musica del Re del Pop. E la parabola, per sua natura, tende a sfuggire agli assi cartesiani, lasciando i terminali distanti e irrimediabilmente scissi: di qua l’uomo e lassù, nello specchio del sogno, l’artista.Come artista Jackson ha donato tanto alla musica: è stato forse il primo nero a instillare le qualità della purissima melodia in una musica che è per natura pulsazione, ritmo, grido, gioia o lamento. Basta ascoltare gli attacchi folgoranti di alcune sue canzoni per capire come possedesse quel dono di pregnanza espressiva che è la sigla del genio, da Bach fino al jazz e al pop. Le sue canzoni sono una promessa di felicità che nei 4-5 minuti dell’ascolto si compie in maniera perfetta, anche grazie all’impeccabile veste commerciale che aggiunge quel tono di studiata piacevolezza adatta al pubblico dell’intero pianeta.Rimaneva però un senso di dismisura, un qualcosa d’incolmabile tra la perfezione del giocattolo sonoro e la personalità sfuggente, ipocondriaca, sofferente dell’uomo. Una distanza acuita e esacerbata se possibile dal successo che, col suo manto di lustrini posticci, ma comodi da sfoggiare, rende ancora più intollerabile il ritorno all’Io, ai suoi conflitti non risolti, a quello che rimane da vedere nello specchio e che non ci dà pace. Fantasmi e tenerezza In realtà Jackson ha provato a mettere in scena i suoi fantasmi, ma anche il lato più oscuro di pezzi riuscitissimi come Thriller si risolveva in una patina pop, in un horror da operetta più che da tragedia, in un qualcosa di buono da consumare, rimanendo sempre nel recinto della canzone. E il pop è una bestia implacabile e vampiresca, che sugge gli umori dell’artista per renderli merce, che sfrutta il sentimento, lo livella al grado di accettabilità e lo immette come prodotto nel mercato globale. Quel mercato che poi si diverte ad aggiungere gossip e scandali per accrescere la morbosità della merce che spaccia.Per resistere a un simile meccanismo ci vogliono almeno due requisiti: o una vita da asceta, dedicata all’arte per l’arte, o il disincanto cinico dell’uomo distaccato che accetta il meccanismo e riesce a dominarlo. Michael non ha avuto né l’uno, né l’altro, perché forse in quello specchio ha sempre continuato a vedere il bambino che non ha mai toccato la felicità quando il tempo era quello giusto. Quel bambino che ha continuato a cantare per noi come dall’isola che non c’è di Peter Pan provando, come fece nel ranch “Neverland”, a reinventarla in uno spazio proprio, circoscritto, reale e dominabile.Oggi sappiamo che non ce l’ha fatta e questo rende ancora più triste il distacco e ancora più grottesca e intollerabile la sfilza di polemiche, appropriazioni e rivendicazioni postume che dai primi minuti dall’annuncio della sua morte ha invaso tutti i media mondiali. Meglio ricordare allora quel senso di tenerezza che c’è in alcuni suoi brani, sempre in bilico tra dolcezza e kitsch, riascoltare magari al buio le sue canzoni, dimenticando perfino i suoi video perfetti, dimenticando il moonwalk (il suo famoso passo di danza), dimenticando insomma l’apparenza e lo specchio per individuare tra le note la voce di quel bambino che trova un’eco in tutti noi perché autenticamente esprimeva il desiderio di ogni bambino quando dice: «Ma sarà vero?».