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Liturgia

Dove prendi l’acqua viva?

L’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo: la donna è personaggio paradigmatico di un cammino di fede che parte da un’appassionata ma confusa ricerca e da un’attesa limitata che trova un esito imprevedibile ed è esaudita in modo sorprendente

di Luigi NASON

1 Marzo 2012

La pericope evangelica dell’incontro di Gesù con una donna di Samaria connota, già nella denominazione, questa domenica (Gv 4,5-42). Il lungo dialogo si svolge presso il pozzo di Giacobbe, è quindi carico di memorie legate ai racconti patriarcali e usa due espedienti letterari frequenti nel Quarto Vangelo: il fraintendimento e l’ironia.

Gesù dice alla donna «dammi da bere» (4,7) e poi promette «acqua viva» suscitando una reazione ironica: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?» (4,10-12). Di fronte all’insistenza di Gesù sulla sua capacità di offrire un’acqua che diventa «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» la donna esprime il desiderio: «Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (4,13-15).

La Samaritana ha frainteso la promessa di Gesù: di che acqua si tratta? L’acqua viva è per lui simbolo della sua rivelazione attraverso la parola, interiorizzata dal dono dello Spirito. Origene, interpretando il pozzo come simbolo delle Scritture, ha colto il significato di questo simbolismo. Scavare pozzi significa scrutare e scavare la Scrittura per scoprirvi, più che nuovi significati, la vita stessa: la Parola viva di Dio nascosta nella Scrittura.

La donna è personaggio paradigmatico di un cammino di fede che parte da un’appassionata, ma confusa ricerca e da un’attesa limitata che trova un esito imprevedibile ed è esaudita in modo sorprendente. Gesù «chiedendo da bere a una donna samaritana, le accendeva nel cuore la sete di Dio» (prefazio). La Parola di Dio invita sempre l’uomo ad allargare gli orizzonti delle proprie attese. Solo la tenace pedagogia di Dio ha potuto educare Israele a capire e assaporare la libertà.

Un antico midrash afferma: «Fu più facile per Dio far uscire Israele dall’Egitto che far uscire l’Egitto dal cuore di Israele». Le «dieci parole» (Dt 5,1-22) tracciano un itinerario verso la libertà, verso quella pienezza di vita cui l’uomo aspira senza essere capace di trovare la strada che vi conduce. La chiave per leggerle sta nella parola che le introduce: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Dt 5,6). Solo lasciandoci condurre dalla Parola di Dio impariamo a comportarci «in maniera degna della chiamata che abbiamo ricevuto» (Ef 4,1).

«Il Signore venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono»

Fino a giovedì continua la proclamazione del discorso della montagna (Mt 5,27 – 6,6), preparata da due Letture tratte dai libri della Genesi e dei Proverbi. I brani di Genesi sono tratti dal ciclo di Abramo (Gen 11,27-25,11) la cui trama, pur non presentando unità narrativa, offre indizi – in primis la figura di Abramo presente in quasi tutto il racconto – per trovare elementi unificanti soprattutto nei «programmi narrativi» presenti all’inizio (Gen 11,27-31 e 12,1-3) e riguardanti i due temi principali: la discendenza e la terra.

È però la discendenza il problema che occupa lo spazio più ampio: è, infatti, essa che erediterà la terra. La sterilità di Sara (11,30) spinge Abramo a cercare altre soluzioni: per esempio, Agar, schiava di Sarài, che partorisce Ismaele. Solo con la nascita di Isacco la promessa di Dio relativa alla discendenza trova un inizio di soluzione (Gen 21). Ma la terra di Kanaan è occupata dai suoi abitanti e non può perciò essere oggetto di possesso immediato: appare chiaro che le promesse della terra per la discendenza (Gen 12,7) e di una discendenza numerosa suppongono un «futuro narrativo» che va oltre Abramo (Gen 13,16; 15,5; 17,4-6; 22,17).

In Gen 14,18-20 Abramo paga la decima a Melkìsedeq, re di Shalem e sacerdote del Dio altissimo. Il richiamo al gesto di Abramo è, per i suoi figli, chiaro invito a imitarlo sottomettendosi al sacerdozio di Gerusalemme e pagandogli la decima. Emerge qui una traccia delle polemiche dell’epoca esilica, quando gravi conflitti opposero il «popolo della terra» e il sacerdozio ritornato da Babilonia (cf Ez 33,24). Nel discorso della montagna incontriamo le cosiddette “antitesi” (Mt 5,20-48). Le parole «Avete inteso che fu detto agli antichi»… «ma io vi dico», ritornano per ben sei volte: esse vanno lette non come abolizione della Tôrah, espressione della volontà buona del Signore Dio, ma come affermazioni che, al di là della lettera e delle letture accomodanti degli scribi, colgono con chiarezza e vigore l’autentica Parola di Dio trasmessa nelle parole umane. In tal senso Gesù proclama «Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (5,20) o, precisando lo stile nuovo dei gesti dell’elemosina, della preghiera e del digiuno (6,1-18), «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro…» (6,1).

Gesù attinge alla sapienza contenuta nelle parole dei Proverbi: «Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo…» (Pr 5,15). «Bere l’acqua al proprio pozzo» è, in alcuni scritti monastici medievali, invito ad attingere alla Parola di Dio trasformandola in sorgente personale di sapienza. Lo stesso libro riassume così le coordinate della sapienza, dono di Dio: «Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in orrore: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente, cuore che trama iniqui progetti, piedi che corrono rapidi verso il male, falso testimone che diffonde menzogne e chi provoca litigi tra fratelli» (Pr 6,16-19).

Il venerdì ci offre quattro Letture del Primo Testamento, con il tema dell’immolazione dell’agnello pasquale, alla cui luce il Nuovo Testamento interpreta la Pasqua di Gesù, con l’aiuto anche delle parole di Geremia: «E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me…» (Ger 11,6).

Infine il sabato, con la sua connotazione battesimale, scandisce le tappe del cammino di preparazione dei catecumeni e il richiamo all’imposizione delle mani si fa invito a rinnovare la memoria del nostro Battesimo: «Il Signore Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono […]. E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì» (Mc 6,1b-5). È in questa memoria che trova il suo vero senso l’itinerario di conversione quaresimale.