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Liturgia

«Ero cieco e ora ci vedo»

Il non vedente è figura delle tenebre in cui l’uomo vive prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio. Il vero peccato è nella presunzione di vedere, di sapere già tutto

di Luigi NASON

15 Marzo 2012

La prima lettura è tratta dal racconto di Es 32-34 che è centrale nella narrazione dei primi cinque libri della Bibbia perché presenta in modo “tipico” la vicenda che Israele ha sperimentato nella sua storia, quella del rapporto con il suo Dio: essa è scandita dal peccato, dal giudizio, dal perdono e dalla rinnovazione dell’alleanza.

Sin dal primo istante Dio deve intervenire a rinnovare il patto perché Israele possa vivere l’alleanza. Nei punti nevralgici del racconto appare la figura di Mosè intercessore: egli fa appello alla misericordia del Signore, alla storia da Lui intrapresa con il popolo «caparbio e di dura cervice» e, soprattutto, alla sua fedeltà. L’intercessione di Mosè ha un carattere permanente: ecco la «tenda del convegno», come segno della presenza del Signore che accompagna il suo popolo. Solo quando Mosè entra nella tenda, il Signore si fa presente nella colonna di nube, scende a parlare con lui, «faccia a faccia» con l’intimità riservata al proprio amico e il popolo, che vede la colonna di nube, si prostra verso la presenza del Signore, verso la sua voce che solo Mosè può sentire.

Il racconto del “segno” del cieco nato mostra la lotta tra la luce e le tenebre, tema di fondo del Quarto Vangelo, già annunciato nel prologo: «Veniva nel mondo la luce vera (1,9)… e le tenebre non l’hanno accolta (1,5)». Gesù vede il cieco, vuole guarirlo per manifestare il senso di quanto poco prima ha detto: «Io sono la luce del mondo!» (8,12). Prende del fango, quasi a ricordare il gesto con cui Dio ha formato l’uomo, lo spalma sugli occhi del cieco, lo manda a Siloe, che significa Inviato: una chiara allusione a se stesso, inviato dal Padre per liberare l’uomo dalle tenebre.

Di fronte al “segno” rivelatore di Gesù, Giovanni descrive con ironia le reazioni di quanti si chiudono alla luce mentre il cieco passa dalla luce degli occhi a quella della fede. La gente, stupita, conduce il cieco dai Farisei, anch’essi imbarazzati: Gesù non può essere da Dio perché non rispetta il Sabato, ma come può un peccatore operare simili segni? La risposta lapidaria del cieco, «è un profeta» (9,17), non può soddisfarli. L’imbarazzo lascia il posto alla denuncia: «Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (9,24), ma il cieco ribadisce «ero cieco e ora ci vedo»: la sua guarigione è radicale e lo porterà a dire «Credo, Signore!».

Il cieco è figura delle tenebre in cui l’uomo vive prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio. Il vero peccato è nella presunzione di vedere, di sapere già tutto. Il cammino quaresimale ci aiuti ad essere tra i «ciechi» che sanno di essere tali e si aprono alla luce e non invece tra coloro che «credono di vedere» e sprofondano nelle tenebre.

L’invito perentorio di Gesù a non giudicare per non essere giudicati

I racconti del ciclo di Giacobbe in Genesi, il libro dei Proverbi e il discorso della montagna ci accompagnano nei prossimi giorni. La continuità della discendenza promessa è resa possibile dalla nascita di Esaù e Giacobbe, i gemelli nati da Isacco e Rebecca nonostante questa fosse sterile. Ancora una volta Dio interviene, accoglie la supplica di Isacco e vengono concepiti i gemelli da subito in conflitto nel grembo della madre (Gen 25,21-22).

Il ciclo di Giacobbe ha come tema unificante il conflitto e la riconciliazione tra loro. Giacobbe sottrae a Esaù la primogenitura, comperandola con una minestra di lenticchie (25,27-34); poi, quando Isacco è vecchio, con l’inganno e la complicità della madre, gli carpisce la benedizione del primogenito. Non gli resta che fuggire a Carran dallo zio Labano, lontano dalla vendetta di Esaù. (Gen 27). Il racconto è scandito da tre teofanie: a Betel durante la fuga (28,10-22), al guado dello Jabboq (32,23-33), ancora a Betel dove il Signore rinnova le promesse fatte ad Abramo e ad Isacco (35,9-15). A Betel, mentre era in fuga, il Signore gli aveva dato appuntamento: «Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra…» (28,15).

Il cammino passa però per il territorio di Esaù: ciò costituisce un rischio, forse mortale ma la chiamata è insistente, come la promessa «sarò con te» (31,3.11.16). La vittoria sul passato sta nella riconciliazione con Esaù: verso di essa gravita il racconto (cc.32-33). La lotta allo Jabboq si protrae fino all’aurora, quando il personaggio misterioso gli chiede di lasciarlo. L’esito è incerto. In Os 12 sembra vincere Giacobbe, mentre in Genesi la vittoria non è così strepitosa. Il dialogo centrale è costruito come un fugato a due voci: il «nome» e la «benedizione». Giacobbe riceve il nome nuovo «Israele» (che significa «Dio regna»). Il motivo del cambiamento del nome è espresso così: «Poiché tu hai lottato con Dio, e con gli uomini e hai vinto» (32,29).

Il nome nuovo è segno di nuova identità: finisce il tempo dell’astuto Giacobbe e inizia quello di Israele, il popolo che lotta con Dio nella notte oscura della fede sino allo spuntare della luce. «È Dio che piega l’uomo, nonostante si faccia trattenere da lui. È Dio che provoca l’uomo alla lotta, alla ricerca insoddisfatta, allo sforzo tenace, perché l’uomo infine possa ottenere da lui la benedizione richiesta» (L. Alonso Schökel).

La lettura del Libro dei Proverbi ci offre pagine ricche di suggerimenti che insegnano come rendere felice l’esistenza. Gli insegnamenti sono accompagnati da una motivazione che sembra voler renderli comprensibili. Si apre poi una sezione con l’elogio della sapienza, la sola virtù con cui si edifica una casa, che è qui metafora della famiglia che vi abita e infine una serie di proverbi attribuiti a Salomone, che esaltano l’amicizia vera.

Gesù nel Vangelo affronta il tema del giudizio: il nostro verso i fratelli e quello di Dio nei nostri confronti. Chiaro e perentorio è l’invito a non giudicare per non essere giudicati perché il giudizio appartiene a Dio. La vera sequela si manifesta nelle opere: i discepoli sono riconosciuti, come l’albero buono, dai frutti. Il discorso della montagna si conclude con una parabola: quella dell’uomo «saggio» e dello «stolto». «Ascoltare» e «fare», secondo la tradizione rabbinica, sono inscindibili: si ascolta per fare, ma anche si fa per ascoltare.

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