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Gocce di cultura

Il cavallo rosso

di Eugenio Corti, Edizioni Ares Milano, XXVII edizione, 2011

Felice Asnaghi

14 Novembre 2012

Nomana (Besana Brianza) paese della Brianza milanese abitato da contadini ed operai la cui vita sociale è scandita dal rintocco delle campane che richiamano i fedeli alla messa e al vespro, alla festa o alla morte. Sono questi gli anni tra le due guerre, segnati dal fascismo e dal ricordo dei partiti popolari, dove la gioventù irrobustisce le fila dell’Azione Cattolica e l’oratorio è il centro vitale di ogni iniziativa. Forte e robusta come una quercia è la figura del parroco, don Mario uomo di fede, capace di dare conforto e dispensare consigli. Il romanzo ha il suo incipit nell’anno 1940 avendo però cura di raccontare il passato e si inoltra sino al 1974. Un arco temporale segnato da due date fondamentali (l’entrata in guerra e il referendum sul divorzio) che trasformeranno il paese e l’Italia intera traghettando la società da realtà contadina ad industriale. A proposito del fascismo, il listone durante le elezioni del 1924 non superò la soglia del 18% dei voti e questo grazie alla solida e radicata presenza delle parrocchie e dei partiti popolari. Dalle altri parti d’Italia  (dall’Emilia al Meridione) fece invece il pieno dei voti. 

Il romanzo (ben 1280 pagine) si apre con una scena agreste: padre e figlio falciano il prato come da generazione in generazione avviene in questa terra “di fede e di lavoro”. Sembra un adagio speranzoso che, di fatto, prelude ad un coro polifonico locale (i compaesani) e successivamente ad un’orchestra in crescendo che coinvolgerà il mondo (seconda guerra mondiale).

Un concetto sottolineato in un secondo episodio descritto nelle prime pagine del libro. Don Mario chiede al giovane Manno Riva, in quel momento in licenza dalla scuola ufficiali dell’Esercito Italiano, di tenere una lezione sull’arte ai ragazzi che frequentano l’oratorio. Manno esordisce con una frase lapidaria che racchiude il senso stesso dell’arte: l’universale nel particolare. Come dire che anche in un piccolo frammento ritroviamo caratteristiche che lo rendono universale e quindi comprensibile a tutti quelli che vogliono comprendere. Il romanzo di Eugenio Corti ha questa peculiarità che possiamo definire cattolicità.

 

Protagonista è la famiglia Riva costituita dal padre Gerardo industriale tessile (un operaio che si è fatto da sé), la moglie Giulia, i figli Francesca, Ambrogio, Pino, Fortunato, Alma, Rodolfo e Giuditta ed il cugino Manno. Attorno a loro si intreccia una trama di rapporti con i compaesani Pierello Valli, Stefano Giovenzana e Luca Sambruna; il compagno di università di Ambrogio, Michele Tentori e poi i commilitoni incontrati lungo la ritirata di Russia come Paccoi, Bonsaver, il soldato-artista russo Laricev detto Ringhierina, mentre sullo sfondo fanno capolino Nilde Jotti, Palmiro Togliatti, suo cognato Paolo Robotti (triste pedina della dittatura leninista) padre Agostino Gemelli, don Carlo Gnocchi.

Le tematiche affrontate sono molte: il comunismo, il nazismo, il fascismo, il lavoro, il governo italiano e i partiti democratici e soprattutto la guerra sul fronte russo, i campi di concentramento, i gulag, il freddo gelido, la fame, il cannibalismo imperante e l’attaccamento al battaglione e al suo capitano degli Alpini.

Non si tratta di una discussione teorica sui principi di queste ideologie (anche), ma è un inevitabile “trovarsi dentro” che rende vero ed attuale il romanzo assumendo la connotazione sia di memoria storica, sia di diario di guerra. Nomi di persone dicevamo, ma anche di paesi divenuti simbolo dell’ecatombe italiana: Calmicov, Boguciar, Arnautovo, Nicolaievca, Orachi, Susdal e soprattutto il campo di smistamento Crinovaia luogo degli orrori.

 

Il romanzo narra le vicende di questa bella e semplice gioventù spedita sui campi di battaglia nella steppa gelata della Russia, in Germania, in Albania e in Italia.

Stefano Giovenzana (il contadino che falciava l’erba con il padre Ferrante), classe 1921 lascia la mamm Luisa e veste la divisa degli Alpini e muore da valoroso sul fronte russo. Accerchiato dal nemico, mentre i suoi compagni del contingente croato preferiscono suicidarsi con un colpo alla nuca pur di non cadere nelle mani dei Russi egli combatte fino all’ultimo. A mille passa chilometri di distanza, in piena notte, il momento stesso in cui il cuore del soldato smette di battere, la madre ha un sussulto, emana un grido di dolore e capisce che il figlio è alla destra del Padre.

Pierello Valli, operaio; braccia aperte, occhi rivolti al cielo, sembra dire “sperem”: un misto tra rassegnazione e speranza nel futuro. Spedito nel settore nord orientale della Germania sul confine polacco vive in prima persona l’esodo e il dramma del popolo tedesco sospinto dalla furia dell’offensiva comunista. In un quadro negativo, drammatico ( i russi facevano tabula rasa di tutto, compresi donne e bambini) Pierello e l’amico polacco Tadeusz riescono a portare in salvo una famiglia tedesca (vedova con bambini) destinata a morire.

Pino Riva, data la giovane età non viene chiamato a combattere e allora sceglie di unirsi ai partigiani. Nella divisione azzurra dei fratelli Di Dio dà il suo apporto alla repubblica dell’Ossola.  Dopo la guerra partirà volontario in Africa in qualità di medico.

Luca Sambruna, giovane operaio meccanico dell’azienda Riva. Arruolato nel corpo degli alpini della Tridentina si fa onore lungo la ritirata del Don. La sua esperienza, unito alla sua capacità sono notate dall’Esercito, tanto che nel 1943 viene spedito in Sud Italia ad organizzare l’esercito di Liberazione. Benché segnato profondamente dalla morte della fidanzata Giustina, non fa mancare il suo apporto per la ricostruzione e nel dopoguerra diverrà segretario della Democrazia Cristiana.

Manno Riva, giovane militare. Dopo aver combattuto in Africa, viene spedito in Albania e poi tra le fila del neonato esercito di Liberazione. Muore da eroe nella battaglia di Montelungo nel novembre del 1943 in uno scontro con i tedeschi.

Ambrogio Riva eredita il ruolo di industriale del padre. Anche lui allo scoppio della guerra è destinato in Russia con il grado di ufficiale e dalla quale tornerà (seppur malridotto) grazie all’aiuto del sottoufficiale Paccoi, contadino umbro. Ambrogio Riva ha un ruolo principale in tutte le vicende del romanzo che ne mettono in evidenza la pacatezza, la cultura universitaria, l’interesse per il sociale, l’amore per la famiglia e il dovere di governare un’azienda con centinaia di dipendenti.

Michele Tintori è l’intellettuale del gruppo. Segnato fortemente dalle vicende del fronte russo egli vive in prima persona il dramma della morte per fame e per freddo dei soldati italiani prigionieri, della repressione nei famigerati gulag, dello sterminio di ebrei, popolazioni autoctone, intellettuali contrari al regime e dei bambini prelevati in terra di Spagna durante la guerra civile e la connivenza del partito comunista italiano. Allo stesso tempo ha modo di apprezzare il sentimento di pietà da parte di suore ortodosse ridotte in prigionia o dagli stessi cappellani militari, ultimi baluardi all’imbarbarimento. Tintori diviene scrittore e nelle sue opere denuncia il comunismo (vissuto sulla sua pelle come gli altri personaggi del libro) e si batte per una presenza sociale e politica dei cattolici.

I sentimenti e le convinzioni di Eugenio Corti, si ritrovano nel romanzo anche nelle storie che caratterizzano i personaggi minori come il parroco don Mario con il suo talare e il coadiutore degli anni settanta vestito borghese e contestatore; Giustina morta di tisi e Marietta delle spole (colei che nella fabbrica di tessitura “rincorre” le spole); il torturatore fascista Praga, il social-comunista Foresto e il farmacista Agazzino. Commuove la gratitudine di Pierello che quando torna dalla guerra si scontra con la normalità della vita quotidiana (la pentola sul fornello o la chiave posta sul davanzale al solito posto) e non può fare a meno di ringraziare la Madonna di Caravaggio dipinta (senza pretese) sui muri di casa.

 

Eugenio Corti in questo stupendo affresco dell’Italia segnata da una guerra che ha portato lutti in tutte le famiglie e schiacciata da eventi ed ideologie che seminano morte, riesce a dare speranza ad un popolo disorientato attraverso la testimonianza di uomini semplici e veri che amano la loro terra, la loro famiglia e vogliono vivere in pace.

È un romanzo in molte sue parti autobiografico dove forte è il sentimento della solidarietà vissuto in primis in famiglia con i dieci fratelli compreso l’autore Eugenio Corti. Mamma Lucia ripeteva spesso “semm al mund per vütass!” proprio come Giulia nel romanzo; papà Mario, concepiva il suo ruolo di imprenditore come missione, creando e garantendo posti di lavoro proprio come Gerardo (nel romanzo). Pino Riva nella realtà è il dr. Piero Corti che con Lucille, fonderà l’ospedale Lacor a Gulu in Uganda e Rodolfo è il fratello Padre Corrado missionario gesuita in Ciad.

 

Il “cavallo rosso” come segnalavo all’inizio è un romanzo profondamente cattolico (è valso a fargli conferire nel 2000 il “premio Internazionale al merito della Cultura Cattolica”) perché nel dispiegarsi della storia, lascia trasparire i valori ai quali il popolo brianzolo ha sempre ispirato il proprio modo di vivere. Valori cristiani, come l’esaltazione della verginità, intesa come dono di purezza da offrire alla persona amata nel matrimonio. Affiora nel racconto che vede protagonista Michele, appena dopo il suo arrivo in terra russa, quando impedisce ad una ragazza di mercificare il proprio corpo, e lo fa rispettandola e pensando unicamente a lei; rubandole la verginità, avrebbe privato quella povera ragazza di questo dono che un giorno non avrebbe più potuto donare a chi l’avesse voluta.

È la fedeltà al matrimonio, che vede Ambrogio già in età matura cercare Colomba, come lui sposata e madre di famiglia, e poi ritornare a se stesso e ai propri valori morali. Convinzioni e ideali di vita che ritroviamo nei personaggi, ma che sono l’essenza del Corti – pensiero. È questa una delle buone battaglie che Corti ha affrontato fin qui nel corso della sua esistenza: la difesa del matrimonio e della famiglia lo hanno visto impegnato in prima persona al fianco di Gabrio Lombardi nella campagna referendaria contro il divorzio. È il Michele Tintori dell’ultima parte del romanzo.

Questo romanzo, giunto alla XXVII edizione, ha affascinato intensamente le persone che lo hanno letto, e ciò è avvenuto particolarmente tra il popolo cristiano, che ha potuto apprezzare Corti per la sua granitica fede. Molti sono gli episodi che la rivelano; è straordinaria la sua concezione della redenzione e del perdono. Uno tra gli episodi più sconvolgenti del libro riguarda un individuo abbietto, originario di Incastigo (Carate Brianza), soprannominato Praga; è narrata con dovizia di particolari la crudeltà delle sevizie condotte a Milano da questo individuo, in una specie di Lubjanka, dove torturava i partigiani che venivano catturati. La descrizione delle angherie, rende disgustosa al lettore l’immagine di quest’uomo che tuttavia, dopo la morte di Almina, Corti ci farà ritrovare in paradiso, con Manno, Stefano e Marietta delle spole, scrive l’autore: «Perché non uno di quelli per cui Cristo è morto si perde, Alma cara, non uno; se non vuole. …  e  anche il Praga d’Incastigo che – grazie alle preghiere instancabili di don Mario – il demonio non è riuscito a tenere soggiogato sino alla fine», come un operaio dell’undicesima ora, diremmo noi.

Scrivendo questo libro, Eugenio Corti ha avuto anche il grande merito di riconciliare una intera generazione con quella dei propri padri: per troppo tempo i nostri combattenti sono stati tacciati di essere stati dei “guerrafondai”. Nel “Cavallo rosso” affiora la storia di persone normali, come lo sono stati i nostri padri, o zii, che hanno avuto l’unico torto di aver mantenuto fede al loro giuramento di soldato; di aver mantenuto fede alla parola data, che è sempre stata una caratteristica del popolo brianzolo, ma che lo è certamente stata anche per il resto del popolo italiano. Storie di grandi uomini, come il capitano Grandi o dei cappellani militari, il Beato don Carlo Gnocchi e padre Guido Turla, ma anche storia di uomini semplici, figli della propria terra, che hanno lasciato la normalità della loro esistenza compiendo un sacrificio, che certo non avrebbero scelto liberamente di fare, e la storia dell’entrata in guerra ce lo ricorda, raccontando quale era la posizione dell’Azione Cattolica, attorno a cui si raccoglieva quel popolo.   E’ la storia di persone umili, come Stefano, Luca o Bonsaver, che sotto l’uniforme continuano a custodire carità e spiritualità, figlie dell’educazione che hanno ricevuto, in famiglia e nella comunità cristiana dalla quale provenivano. In ogni soldato, quando arriva al fronte, o al campo di prigionia, è raccontata la ricerca dei commilitoni o delle persone della stessa terra d’origine, è la ricerca delle proprie radici: esemplare e significativa la descrizione del temperamento del soldato “marrucino”, conosciuto da Ambrogio nella caserma di Piacenza, suo primo approdo da soldato. La ricerca dei punti della somiglianza tra brianzoli e marrucini (territorio attorno a Chieti).  Traspare dal racconto, in ogni circostanza, la capacità dei personaggi, di fare memoria della loro appartenenza a Cristo. In un raro momento di pace, nella steppa russa, la descrizione del bellissimo cielo stellato rimanda al suo Creatore: ecco allora la bellezza dell’universale ritrovata nel particolare. Possiamo anche aggiungere che Corti compie un servizio a favore della verità, confutando qualche “verità storica” troppo spesso accettata acriticamente? L’Italia non fu liberata solo dai partigiani rossi e dagli alleati. Dopo il rientro in Italia, Ambrogio si mette al servizio dell’Esercito regolare, contribuendo a dare forma al Corpo di Liberazione Nazionale (CLN), composto in maggioranza da cattolici e uomini liberi da ideologie, che combatteranno per la liberazione dell’Italia, ed è proprio nel corso della battaglia di Montelungo, che Manno perderà la vita.

Come ebbe a dire Mons. Maggiolini, compianto vescovo di Como su “L’osservatore Romano”,  tra i primissimi recensori del libro, “ il Cavallo Rosso ritrae con sorprendente realismo l’aspetto lirico ed etico della vita”.  

“Il cavallo rosso” è giunto alla sua ventisettesima edizione grazie alle tante critiche e recensioni autorevoli, alle quali si sono aggiunte quelle semplici, nate dal cuore dei lettori. Sono state proprio queste ultime che hanno fatto diventare questo libro un fenomeno editoriale: la sua grande diffusione ha avuto come unico veicolo pubblicitario il passaparola, in barba al silenzio iniziale della critica specializzata.

La bellezza, quando è apprezzata e compresa fino in fondo, non può rimanere solo un fatto personale, ha bisogno di essere comunicata: ecco perché ne consiglio la lettura.