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Intervista

«L’alternativa alla violenza?
Dialogare e costruire ponti»

Dialoghi di vita buona: martedì al Piccolo Teatro Studio primo incontro su confini/migrazioni. Parla Paolo Magri, direttore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale

di Pino NARDI

23 Novembre 2015
PAOLO MAGRI   ISPI

«Se vogliamo continuare ad avere un fenomeno come quello del terrorismo, il modo migliore è criminalizzare un’intera religione, 20 milioni di musulmani che vivono in Europa, metterli ai margini della nostra società nella quale migliaia di giovani troveranno in questa formula agghiacciante l’unica soluzione per uscire dal disagio». Paolo Magri, direttore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), riflette su un momento molto delicato per l’Italia e l’Europa dopo gli attacchi terroristici di Parigi e sui rischi di derive che vanno evitate. E lancia la prima serata dei Dialoghi di vita buona, di cui sarà uno dei protagonisti, martedì alle 20.30 al Piccolo Teatro Studio Melato, insieme al cardinale Scola, Massimo Cacciari, monsignor Pierangelo Sequeri, Gad Lerner e Sergio Escobar.

Nell’attuale drammatica stagione quale contributo possono dare i Dialoghi?
Un contributo ancora più importante, alla luce di quanto è avvenuto in questi giorni. Stiamo vivendo da tempo e soprattutto adesso con parole urlate ed estremizzate: parliamo di emergenza, paura, guerra e di situazioni nelle quali ciò che c’è in comune è l’incapacità di costruire ponti, di creare unione, di dialogare in modo pacato cercando di andare alla radice dei problemi, di inquadrarli correttamente, di evitare soluzioni e slogan facili. Questo è il contributo che possono dare invece i Dialoghi.

Infatti in questi giorni si parla molto di guerra. Ma siamo effettivamente in guerra?
Oggi siamo di fronte ad attacchi di gruppi da noi e da tempo di forze terroristiche organizzate militarmente in Paesi come la Siria e l’Iraq. Usare la parola “guerra” evoca ricordi passati, che molti giovani non hanno neppure nel loro Dna, ma che hanno invece le generazioni che ci hanno preceduto. La parola evoca una risposta simmetrica e analoga di difesa. Non è questo che dobbiamo ipotizzare, di fronte alla forza bruta e alla violenza inaudita che sta emergendo da parte di alcuni gruppi, che non sono eserciti, ma sono formati da giovani. Dobbiamo rispolverare una serie di armamenti, non necessariamente solo quelli militari, ma che toccano tante altre dimensioni rispetto al ruolo che hanno gli Stati: ripensare le modalità di integrazione, stabilire regole chiare su chi da noi viene a vivere e a rimanere, pensare a cosa soprattutto nei Paesi del Medio Oriente genera una frustrazione forte che permette a voci che propagandano la violenza di avere seguito.

Dunque, una reazione che va oltre il bombardamento, dove la politica riprende il proprio ruolo…
Noi stiamo “bombardando” terroristi con varie tecniche e interventi militari almeno dal 1960. Siamo nel 2015 e stiamo ancora discutendo di terrorismo. Questo non significa che non si debbano colpire gruppi che mettono in atto opere di questo tipo, ma ci deve far riflettere se questa strada, primariamente militare, sia l’unica soluzione e quella vincente.

C’è chi soffia in questi giorni anche da un punto di vista politico e culturale sull’associazione musulmano-terrorista, evocando lo scontro di civiltà. Ma è così?
Se vogliamo dare la vittoria a questi gruppi, questa è sicuramente la strada che dobbiamo seguire. Se vogliamo creare le condizioni perché non 5, 20, 50 o 100 ma migliaia di giovani si radicalizzino nel mondo musulmano e diventino terroristi questa è di sicuro la strada.

Tuttavia anche il mondo islamico dovrà fare un percorso e reagire contro gli attacchi terroristici. Vanno incoraggiate le iniziative di questi giorni?
Sì, vanno incoraggiate e potrebbero anche essere più numerose. Dobbiamo tutti capire che la struttura delle organizzazioni religiose del mondo musulmano è molto meno gerarchizzata di quelle di altre religioni che conosciamo. Quindi ci sono meno figure di riferimento che possano dare con voce autorevole e con forza mediatica un segnale di distacco da questi fatti. Però credo che sia nell’interesse delle comunità islamiche presenti in Europa essere il più possibile vocali, forti, netti e chiari nel creare distinguo rispetto ai terroristi. Sono milioni i musulmani che vivono nella nostra società e che incontriamo nella vita quotidiana. Devono farsi sentire di più, perché altrimenti nel caos mediatico provocato dai terroristi la voce che passa è quella dei fischi nello stadio di Istanbul.

Un’altra associazione che circola in questi giorni è terrorismo e migrazione. Tuttavia i protagonisti dei fatti di Parigi sono giovani di seconda generazione, cresciuti ai margini delle periferie francesi o belghe…
Abbiamo già iniziato a dibattere sul legame migranti-terroristi, perché forse uno dei giovani che è coinvolto nei fatti di Parigi è sbarcato in Grecia. Uno su 760 mila arrivati quest’anno in Europa. È chiaro che nessuno può escludere che tra queste persone ci sia anche qualcuno che ha potenziale per diventare terrorista o che sia già pronto a esserlo. Ma appiattire, schiacciare la massa di persone su questa ipotetica figura fa parte della confusione mediatica e dello sciacallaggio che anche per biechi obiettivi elettorali viene realizzata in questi giorni. Certo, questo rende ancor più importante che si dibatta come faremo martedì prossimo, ma dobbiamo essere consapevoli che rende ancor più difficile mantenere il tono pacato e ragionato nell’affrontare questi problemi, perché nella pancia di tantissimi, anche nel nostro Paese, il fastidio nei confronti dell’islam e delle immigrazioni c’è e crescerà.

La paura è entrata nella vita quotidiana. Come si può affrontare?
La paura è chiaramente l’obiettivo del terrorismo, sempre fatto di pochi che vogliono colpire molti: non significa uccidere tutta la popolazione, ma spaventare, annientare, creare reazioni inconsulte colpendo pochi nei molti, tramite l’effetto di diffusione del sentimento di paura. È innegabile che ci sia questo sentimento dovuto alla scelta di colpire non più obiettivi sensibili (Charlie Hebdo, l’ambasciata, il Parlamento canadese), ma la vita normale di un venerdì sera parigino. Torniamo al tema dei Dialoghi e del ragionare pacato: dobbiamo parlare, spiegare alla popolazione e convincere noi stessi che c’è un rischio – e su questo si può fare poco perché il terrorismo è abile nel muoversi – che siano colpiti obiettivi diversi da quelli che uno si aspetta ogni volta. Ma questo non può e non deve paralizzare la nostra vita quotidiana, non deve cambiare il nostro atteggiamento rispetto all’islam, agli immigrati, anche rispetto alla tutela delle libertà, dei diritti e alla quotidianità che dobbiamo continuare.

Il cardinale Angelo Scola portando la solidarietà degli ambrosiani all’Arcivescovo di Parigi ha sottolineato la necessità di un risorgimento dell’Europa. Può essere l’occasione buona o potrebbe davvero essere l’inizio del declino?
Il declino c’è da tempo. Se risorgimento dell’Europa vuol dire che attorno a questi fatti riscopre la solidarietà fra Paesi, che abbiamo bruciato nelle vicende della Grecia e dell’immigrazione; se solidarietà dell’Europa vuol dire guardare i problemi lontano, anticiparli e creare strumenti non con atteggiamento di brevissimo periodo; se questo è il contesto, il risorgimento è da auspicare e dobbiamo tutti sperare che sia un’occasione non perduta. Mi spaventa un’altra interpretazione di risorgimento dell’Europa, che sviluppa una capacità militare comune per affrontare problemi militari, perché questo è uno degli aspetti, non il più importante. Quindi la risposta non è creare l’esercito comune europeo, ma creare una coscienza comune europea che vede i problemi, li affronta in modo coordinato e unito, non guardando alla punta dell’iceberg come facciamo spesso.