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Intervista

Manicardi: «Non dare oggetti,
ma donare se stessi»

«Quale testimonianza delle parrocchie nel territorio in cui si trovano? Primo: ascoltare le situazioni di sofferenza; secondo: assumerle; terzo: provare a intervenire, non tanto con pratiche assistenzialistiche, che mostrano tutti i loro limiti, bensì facendosi presenza»

di Stefania CECCHETTI

3 Novembre 2013

Dopo aver seguito gli operatori Caritas in un percorso formativo tenutosi presso la Comunità di Bose, Luciano Manicardi, monaco di Bose, interverrà al Convegno del 9 novembre parlando su «Gesù di Nazareth, il grande narratore».

Come viene narrata la carità nella Bibbia, che è il racconto per eccellenza?
Quando la Bibbia vuole esprimere la fede non fa affermazioni dogmatiche, ma narra storie. In particolare la Bibbia racconta l’agire di un Dio compassionevole che entra in relazione con il povero, con il popolo oppresso degli ebrei e lo fa uscire dall’Egitto. Questa narrazione culmina nella figura di Gesù di Nazareth: a quel punto la carità e la giustizia, che non sono mai scisse nella Bibbia, vengono raccontate dall’agire, dalle parole e dal vivere di Gesù.

Lei ha scritto che la narrazione fa appello a tutte le dimensioni dell’uomo e non solo a quella razionale. La Chiesa oggi è in grado di narrare la carità nel senso più pieno del termine, non semplicemente spiegando quello che fa? Ci sono voci profetiche in questo senso?
La Chiesa ha sempre mantenuto al suo interno la capacità di narrare la carità non semplicemente facendo discorsi teologici e astratti. Da sempre c’è un vissuto, magari nascosto ma ampiamente diffuso, in cui la carità viene detta attraverso la testimonianza, vite che si donano concretamente ad altre persone in situazioni di povertà e oppressione. Ma direi che oggi è evidente a tutti una voce in particolare, che non è soltanto una voce ma una vita e una persona, che sta narrando la potenza della carità di Dio e dell’Evangelo con un linguaggio semplice e accessibile, e che anzi scandalizza e pone ostacoli agli intellettuali e ai dotti: l’attuale Vescovo di Roma, Papa Francesco.

Con quali iniziative le parrocchie possono farsi narratrici di carità?
Anzitutto credo che le parrocchie debbano sviluppare una capacità di immaginazione per inventare modi creativi di narrazione, e dunque di testimonianza, della carità nel territorio in cui si trovano. Si tratta primo di ascoltare le situazioni di sofferenza, secondo di assumerle e terzo di provare a intervenire, non tanto con pratiche assistenzialistiche, che mostrano tutti i loro limiti, bensì facendosi presenza. La pratica della carità di fronte alle nuove miserie di oggi, che non sono solo povertà materiali ma soprattutto povertà di senso, richiede persone che sappiano dare tempo, ascolto, parola e presenza. Non dare oggetti, ma donare se stessi.

Proviamo ad applicare quanto detto alla strage di Lampedusa. Cosa ha da dire alla Chiesa questo avvenimento?
Questo evento clamoroso, che pure è solo l’ennesimo episodio tragico che si ripete nella vicenda dei migranti che dal Nord d’Africa vengono in Europa attraverso l’Italia, dovrebbe interpellare la Chiesa nel senso di una sana autocritica. Dovremmo riflettere su quello che si poteva fare e non si è fatto. Occorre non solo lanciare la pietra, ma anche verificare se non ci sia anche una nostra corresponsabilità. Da questo può partire una visione più onesta del problema e quindi l’individuazione di vie più efficaci di intervento.