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Gocce di cultura

Menis Kumandareas, La maglia numero nove

Crocetti editore, Milano, 2003

Felice Asnaghi

26 Febbraio 2014

Menis Kumandareas nato ad Atene nel 1931, è uno dei principali scrittori greci, autore di numerosi romanzi tra i quali si segnalano “I flipper” (libro d’esordio datato 1962), “La vetreria” (Premio nazionale per la narrativa nel 1975), “Il loro profumo mi fa piangere” (pubblicato in Italia da Crocetti) e “Due volte greco” (Premio nazionale per la narrativa 2001). I suoi libri sono stati tradotti in russo, tedesco, italiano, turco e francese e sono diventati fonte d’ispirazione per film e sceneggiati televisivi ellenici. Inoltre Kumandareas è molto conosciuto in Grecia anche per il suo lavoro di traduttore che l’ha portato confrontarsi con opere di Hesse, Poe, Hemmingway, Melville, Fitzgerald, Buchner, Carrol, Faulkner, McCullers.

Il romanzo “La maglia numero nove” è ambientato nella Grecia di fine anni cinquanta/inizio sessanta, periodo in cui lo stato ellenico lascia alle spalle i difficili anni della guerra e prova, non senza difficoltà e contraddizioni, a rinascere. Tra una generazione ancorata al passato e legata alle proprie tradizioni religiose, si fa spazio una generazione figlia della crescita economica con il mito del progresso e del benessere.

La capitale Atene, Salonicco e il suo Golfo Termaico, Volos racchiusa dal Golfo Pagasitico e dal promontorio del Pilio, sono i luoghi dove si ramifica la trama del romanzo che ha come sfondo il mondo del calcio. Kurmandareas in questo splendido libro prende spunto dalla vicenda del giovane Vasilis Seretis per narrare i vizi e le virtù del popolo greco e ci riesce nel modo migliore.
Il protagonista del libro è un irrequieto ragazzo ateniese che si lascia alle spalle il quartiere popolare dove è nato e cresciuto per inseguire un sogno: diventare un calciatore professionista. Non conosce Dio, non ha famiglia, non concepisce relazioni stabili, il suo rapporto col sesso è solamente fisico, poco importa se sia donna o se sia uomo qui la legge è lo scambio (“do ut des”) e i termini che accompagnano le vicende sono inequivocabili: “puttane” e “finocchi” (sic!), l’unica legge che vale è quella dei soldi.

Vasilis, dai campetti di periferia riesce a calcare l’erba di stadi importanti, vestire la maglia della Nazionale, divenire celebre ed essere osannato dai tifosi. Al culmine del successo il suo nome greco scompare per far posto a Bill, segno della pressante americanizzazione dei costumi. Scorrono fiumi di parole sul suo conto, i giornali pubblicano interviste create ad arte dove la verità è completamente fuorviata. Bill è in balia dell’efferatezza del mondo del pallone e la sua personalità è inesistente. Sempre pronto ai compromessi e a rinnegare gli amici.  Ben presto la genialità che ispira la sua attività professionale lascia il posto alla sregolatezza e a un certo punto del libro uno si chiede: «Si può vivere così?». All’inizio si può mascherare, ma col tempo il tracollo è inevitabile. Bill vive questo passaggio della sua vita in tutta la sua drammaticità: si rompe un ginocchio al quale fa seguito la non volontà di sottoporsi alla fisioterapia e combattendo il dolore con il fumo e l’alcool.  Una buona dose di cialtroneria non lo aiuta, anzi convince la squadra ad abbandonarlo al suo destino e lo fa radiare dall’albo dei calciatori.

Attorno al protagonista si avvicendano personaggi contradditori, dal barbone che legge il futuro, allo scommettitore di cavalli, a improvvisati procuratori tutti immersi nel mare del vizio. Differente è la realtà delle squadre di calcio. Emergono le figure di bravi giocatori, di seri allenatori che cercano di aiutare Bill mettendolo di fronte alle proprie responsabilità ma lui non fa altro che negare l’evidenza, una scelta che lo fa sprofondare nell’oblio.