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Testimonianza

Una sera alla Centrale,
porta d’Europa dei disperati

Ogni giorno in media arrivano 200 siriani, che stazionano al mezzanino dove gli operatori del Comune e i volontari del terzo settore provvedono alle loro prime necessità. In attesa di ripartire verso nord...

di Francesca LOZITO

13 Giugno 2014

«Li puoi trovare tutte le sere lì, al mezzanino della Stazione Centrale…». L’operatrice Caritas lo dice molto chiaramente: per capire l’emergenza-profughi dalla Siria occorre andare proprio lì. In quel luogo trafficato di arrivi e partenze, dove la gente corre da una parte all’altra. E magari neanche si guarda attorno. Dove i negozi di lusso stonano con l’andirivieni di bambini dalle scale mobili. Sono ripide e veloci, le scale mobili: i bambini ci giocano, su e giù. Qualche volta i poliziotti messi lì a controllo li riprendono. Ma sono bambini, e hanno visto la guerra, quella più dura e dimenticata dal mondo intero. Quella che lascerà l’orrore per sempre in loro.

Una coppia, marito e moglie, si era perduta nella calca del treno che dal sud li ha portati al nord dello Stivale. Lei, disperata, cercava il suo compagno. L’ha trovato. Ora sono seduti su una panchina e non si mollano un attimo. In un angolo un gruppo di donne. Poco lontano un’altra allatta il suo bambino, di neanche un mese: dicono che sia nato a Siracusa. Figlio della speranza: se nasci in Siria, oggi, non hai nulla, solo guerra. Chi può scappa. Chi non ha nulla muore e neanche arriva in Italia.

«Quale percorso fanno per arrivare qui?», chiede una giornalista americana agli operatori. «In gran parte dal mare, una piccola percentuale dalla Bulgaria, pochissimi dalla Grecia», risponde uno dei volontari. Dal mare significa durezze, il buco nero dell’Egitto e la roulette dall’acqua alla terra ferma. E poi il treno e infine Milano, porta d’Europa, primo transito verso la Nazione a cui chiederanno asilo. «Molti hanno parenti in Germania, Danimarca, Norvegia… Quest’ultimo Paese ne ha accolti 14 mila. Dalla Centrale da ottobre a oggi ne sono passati 8 mila. Nessuno vuole restare qui…», dice un altro operatore. In questo periodo in media ne arrivano 200 al giorno, ma chi segue da lontano la situazione in Siria dice che sono destinati ad aumentare. Non hanno nulla: le valigie, quando ci sono, sono piccolissime.

Due ragazzini indossano magliette da calciatori, chiedono dell’acqua. A un certo punto arriva un medico, ben accolto dagli operatori: «Grazie di essere venuto anche stasera», gli dice una funzionaria del Comune. Lui parla arabo, ed è fondamentale per parlare con i profughi siriani. Diversi operatori sanno dialogare in questa lingua.

Qui, dallo scorso ottobre, ogni sera si incontra quella che una volta si chiamava la «Milano col cuore in mano»: tutto il terzo settore assieme al Comune, uniti per questa accoglienza di qualche giorno. «Non mangiano da quattro giorni», fanno notare. Arrivano cibo e acqua, fa caldo. Inizia la distribuzione. Poco più in basso, nel portico della Stazione, una tenda della Protezione civile è allestita per le prime visite mediche. C’è anche un fasciatoio improvvisato per cambiare i piccolissimi. Le mamme ricevono pannolini.

Guardi questa Milano che ogni giorno sta qui e da qui tesse trame di solidarietà nelle tante strutture di accoglienza che per una o due sere accolgono queste persone in fuga e in transito: quella che l’Arcivescovo chiama «amicizia civica» è proprio qui. E può e deve essere un inizio perché l’Europa si accorga che occorre aprire un corridoio umanitario per dirigerli direttamente nel Paese in cui intendono chiedere asilo, senza farli incappare nelle beffe della burocrazia. Dopo quello che hanno visto e vissuto nel loro Paese, sarebbe il minimo.