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Esteri

Iraq, Afghanistan, Pakistan: da un errore all’altro?

La guerra portata dagli Usa nel Golfo non ha risolto e non risolverà la questione "terrorismo". E la situazione nel Paese dei talebani è addirittura peggiore che nell'ex Mesopotamia, mentre lo stesso Pakistan è da "riconquistare"

Romanello CANTINI Redazione

10 Marzo 2009

Robert Gates, il segretario della Difesa americano, che più di ogni altro dovrebbe essere in grado di dare qualche oroscopo sulla guerra in Afghanistan, lo ha detto di recente: «Nessuno sa quanti uomini e quanto tempo ci vorranno ancora». E le previsioni del tempo, anche se si ricavano dalla storia del passato anziché dalle nebbie del futuro, non promettono molto di buono. I talebani, dati per sconfitti e alla fine del 2001 ridotti a poco più di duemila, oggi sono aumentati dieci volte. Si dà per scontato che il 70% del territorio rurale del Paese sia ormai tornato sotto il loro controllo. E le loro azioni nel cuore delle città e contro le basi militari del nemico diventano sempre più spettacolari e temerarie.
Occupato il Paese sette anni fa, Bush ritenne che il grosso del lavoro fosse fatto e rivolse occhi e truppe verso l’Iraq. L’errore di valutazione fu addirittura superiore a quello compiuto due anni dopo in Iraq. Lo dimostra il fatto che, mentre in Iraq la situazione sta migliorando, in Afghanistan sta invece peggiorando: il presidente Obama, mentre conferma il ritiro delle truppe dalla ex-Mesopotamia per l’anno prossimo, promette 30 mila nuovi arrivi in Afghanistan e bussa anche a tutte le capitali europee per chiedere nuove truppe, non trovando da questo lato molte porte aperte. Ma si sta facendo breccia la convinzione che a ben poco servirà un nuovo “arrivano i nostri”, se non li precede una nuova strategia fatta di un maggior numero di soldati locali e di meno soldati internazionali e soprattutto di meno soldati in generale e di maggiore aiuto e dialogo in assoluto.
Inoltre non si può ignorare che in Afghanistan, al di fuori di Kabul, non esiste luce elettrica, non sono stati ricostruiti i canali di irrigazione, né esistono strade degne di questo nome: l’oppio, unica merce che si può portare a spalla, è diventata produzione universale. E non si può non tenere presente, di fronte a una campagna elettorale ormai alle porte, che per riconquistare la fiducia della popolazione difficilmente si potrà contare sul governo Karzai: di fatto ha istituzionalizzato il potere feudale dei vecchi “signori della guerra” trasformati in governatori, che si lasciano corrompere, taglieggiano e spadroneggiano. Robert Gates, il segretario della Difesa americano, che più di ogni altro dovrebbe essere in grado di dare qualche oroscopo sulla guerra in Afghanistan, lo ha detto di recente: «Nessuno sa quanti uomini e quanto tempo ci vorranno ancora». E le previsioni del tempo, anche se si ricavano dalla storia del passato anziché dalle nebbie del futuro, non promettono molto di buono. I talebani, dati per sconfitti e alla fine del 2001 ridotti a poco più di duemila, oggi sono aumentati dieci volte. Si dà per scontato che il 70% del territorio rurale del Paese sia ormai tornato sotto il loro controllo. E le loro azioni nel cuore delle città e contro le basi militari del nemico diventano sempre più spettacolari e temerarie.Occupato il Paese sette anni fa, Bush ritenne che il grosso del lavoro fosse fatto e rivolse occhi e truppe verso l’Iraq. L’errore di valutazione fu addirittura superiore a quello compiuto due anni dopo in Iraq. Lo dimostra il fatto che, mentre in Iraq la situazione sta migliorando, in Afghanistan sta invece peggiorando: il presidente Obama, mentre conferma il ritiro delle truppe dalla ex-Mesopotamia per l’anno prossimo, promette 30 mila nuovi arrivi in Afghanistan e bussa anche a tutte le capitali europee per chiedere nuove truppe, non trovando da questo lato molte porte aperte. Ma si sta facendo breccia la convinzione che a ben poco servirà un nuovo “arrivano i nostri”, se non li precede una nuova strategia fatta di un maggior numero di soldati locali e di meno soldati internazionali e soprattutto di meno soldati in generale e di maggiore aiuto e dialogo in assoluto.Inoltre non si può ignorare che in Afghanistan, al di fuori di Kabul, non esiste luce elettrica, non sono stati ricostruiti i canali di irrigazione, né esistono strade degne di questo nome: l’oppio, unica merce che si può portare a spalla, è diventata produzione universale. E non si può non tenere presente, di fronte a una campagna elettorale ormai alle porte, che per riconquistare la fiducia della popolazione difficilmente si potrà contare sul governo Karzai: di fatto ha istituzionalizzato il potere feudale dei vecchi “signori della guerra” trasformati in governatori, che si lasciano corrompere, taglieggiano e spadroneggiano. Le possibilità di dialogo Tuttavia il deterioramento della situazione in Afghanistan può apparire addirittura tollerabile e sempre nell’arco delle cose immaginabili rispetto al peggioramento della situazione in Pakistan. Questo Paese – che doveva costituire la testa di ponte per le operazioni contro i talebani – è diventato esso stesso un Paese da riconquistare. Nell’ultimo anno si sono contati nel Pakistan oltre seicento attentati terroristici con più di duemila vittime. Fra questi attentati, undici fra i più spettacolari hanno provocato ciascuno fra i venti e i centocinquanta morti: è da aggiungere, almeno per una parte di responsabilità, l’attentato a Mombay del dicembre scorso con i suoi 172 morti. Dopo l’assassinio di Benazir Bhutto avvenuto due anni fa, gli integralisti islamici con un attentato all’Hotel Marriot di Islamabad (53 morti) hanno mancato per poco il vedovo di Benazir, Asif Ali Zardari, che da poco ha sostituito il generale Musharraf al potere. Ormai nelle zone di confine con l’Afghanistan i talebani sono in grado d’imporre la sharia e di incendiare centinaia di camion che dovrebbero rifornire le truppe internazionali nel Paese vicino.L’unica opportunità in una situazione sempre più grigia è il fatto che Bin Laden è per questi guerriglieri poco più di un nome e anche il vecchio Mullah Omar è appena un punto di riferimento. Il movimento dei talebani è ormai una galassia in mano a tanti capi praticamente autonomi l’uno dall’altro. Il tentativo di dialogo con alcune di queste forze, per cui si è pronunciato anche il presidente Obama, appare ormai non solo ragionevole, ma anche inevitabile, pur con alcune precisazioni.L’assaggio di dialogo provato nel settembre scorso dal presidente Karzai con la mediazione dell’Arabia Saudita è fallito perché non ha voluto pagare alcuni prezzi e prevedere alcune condizioni. I talebani probabilmente sono disposti a rinunciare al terrorismo, ma non all’istituzione della sharia nei territori da loro già controllati. Essi inoltre si sentono in questo periodo troppo forti per fare concessioni. Per questo motivo il dialogo può avere dei risultati solo se le forze occidentali riescono a riconquistarsi la popolazione prima di preoccuparsi di riconquistare dei territori. Altrimenti nessun talebano tratterà finché avrà la speranza di avere dietro di sé la sua gente e la presunzione di non dover negoziare una partita che sente già vinta.