Share

Mediterraneo

Favorire un incontro delle civiltà

“Primavera araba: dopo 2 anni quali prospettive?”. Un dibattito promosso
a Roma con esperti di relazioni internazionali e d’immigrazione

15 Aprile 2013
- - TEHRAN, IRAN - MARCH 18:  Young Iranian women shop before the forthcoming Iranian New Year of Norouz, March 18, 2004 in Tehran, Iran. Despite the control of Iran's parliament and key levers of government by conservatives, who have tried to clamp down on what they see as a corrosion of strict social rules, young Iranians, disillusioned with politics and gridlocked rule of once popular President Mohammad Khatami, continue flout rules on head covering, traditional clothing and holding hands in public.  (Photo by Scott Peterson/Getty Images) - Fotografo: Scott Peterson / Getty Images

“Primavera araba, dopo 2 anni quali prospettive?”. Una domanda-chiave per capire il passato, il presente e il futuro dei Paesi che si affacciano dall’altra parte del Mediterraneo. E proprio di questo si è parlato nel dibattito promosso a Roma dal Consiglio italiano dei rifugiati (Cir) insieme alla Società italiana per l’organizzazione internazionale (Sioi) e a esperti di relazioni internazionali e d’immigrazione. Perché strettamente connesso al tema delle rivoluzioni arabe, c’è proprio quello della fuga delle persone in cerca della libertà, ha rilevato Savino Pezzotta, presidente del Cir. Quest’ultimo ha, inoltre, dichiarato che «per comprendere gli sviluppi economici e sociali futuri, non basterà più guardare all’Europa, occorrerà creare un dialogo con queste realtà che si affacciano sul Mediterraneo, ribaltando il tema dello scontro delle civiltà, a favore di un incontro delle civiltà».

La rivoluzione: un iter complesso

Attraverso un excursus storico e personale di Staffan De Mistura, sottosegretario del ministero degli Affari Esteri, sono state ripercorse le tappe cruciali che hanno portato alla cosiddetta “primavera araba” e all’entusiasmo che ha caratterizzato questa fase. «Un entusiasmo legittimo, ma attenzione alle aspettative». L’esperto ha, infatti, ricordato che «ogni rivoluzione comporta delle fasi, anche lunghe, di assestamento, nelle quali ricadute, passi indietro, nuove imposizioni, non solo, non sono da escludere, ma sono parte stessa del percorso che può portare alla svolta democratica».

«Non ci sono scorciatoie quando si parla della conquista delle libertà personali e della formazione della democrazia», ha rincalzato Stefano Rizzo, autore del libro “Le rivoluzioni della Dignità”. Se da una parte, infatti, i moti rivoluzionari sono stati guidati da giovani arabi, moderni, coraggiosi, connessi a internet, va anche tenuto conto che questi Paesi «sono caratterizzati da una presenza forte delle masse agrarie dell’entroterra, molto più arretrate e legate alle tradizioni e ai valori degli integralisti islamici». Non bisogna, quindi, meravigliarsi se ora assistiamo a una fase di arresto o di ripensamento, che «può rappresentare solo una tappa di un percorso più lungo e complesso» ha evidenziato Rizzo, il quale ha anche invitato l’Europa a vedere queste terre come una risorsa economica e sociale piuttosto che una minaccia.

Il dramma degli immigrati

«Le rivoluzioni propongono un cambiamento, non sono il cambiamento», ha proseguito Riccardo Compagnucci, vicecapo dipartimento vicario del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, il quale ha, inoltre, ricordato che «l’Europa ricopre un ruolo di forte responsabilità in questo processo perché dovrà accompagnare il cambiamento lì dove emerge davvero la volontà di un’evoluzione». «Sostenere e guidare, ma senza imporre una visione occidentale – ha rilevato il funzionario ministeriale – perché è fondamentale che ci sia una crescita della democrazia e dei diritti umani in modo da gestire le situazioni nel rispetto delle diversità, ma tenendo sempre presente il background di questi Paesi». Compagnucci ha portato anche alcuni dati sulla presenza d’immigrati in Italia. «Negli ultimi quindici anni l’Italia ha accolto 373 mila persone». Solo nel 2011 sono stati 62.692 gli stranieri sbarcati sulle nostre coste e «tenendo conto che sono state 31 milioni le persone che si sono spostate nel mondo in questo anno, vuol dire che noi abbiamo sopportato il 5 per mille degli spostamenti mondiali». Sono dati che «andrebbero tenuti presenti prima di muovere accuse pesanti sull’operato dell’Italia, tanto più se si tiene conto che ben 8 mila sono state le persone salvate in mare durante i viaggi della speranza».

“Primavera araba” o “primavere arabe”?

Da qui è partita la riflessione di Antonio Cantaro, dell’Università di Urbino, che preferisce utilizzare il plurale quando parla di questo fenomeno, per rimarcare la specificità di ogni rivoluzione a seconda del Paese coinvolto. Parlando delle prospettive future, secondo Cantaro «le primavere arabe non sono né tradite né compiute, sono un’opera in progresso». E come tutte le opere in progresso vivono in un clima d’insicurezza, anche perché va tenuto conto che «dentro la stessa parola rivoluzione viene sottesa l’asperità della transizione», ricordando che noi stessi in Italia abbiamo vissuto una fase simile dopo la Seconda guerra mondiale. «Indagare le cause è giusto, ma adesso la vera emergenza è aiutare le persone coinvolte, sia quelle che restano, sia quelle che decidono di fuggire», ha concluso Christopher Hein, direttore del Cir. Sì, quindi alle politiche di asilo e d’integrazione, «ma per arrestare il flusso d’immigrazione, bloccare i viaggi della speranza e gli approdi in massa sulle nostre coste è importante attuare politiche di cooperazione e sviluppo sui territori arabi stessi, come è stato fatto nei Balcani dopo la fine del conflitto».