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Analisi

Ricerca scientifica, l’Italia arretra dopo trent’anni di crescita

Alla fine la corda della ricerca si è spezzata. Per la prima volta in trent'anni la produzione scientifica dell'Italia smette di crescere e dà segnali di arretramento

23 Agosto 2011

Lo fa sia in termini relativi, come quota percentuale dell’intera produzione mondiale, sia in termini assoluti, come numero di articoli scientifici pubblicati. Vale a dire risultati degli esperimenti, nuove scoperte, nuova conoscenza prodotta nei laboratori e nelle biblioteche delle nostre università e dei nostri centri di ricerca. E’ l’istantanea di un punto di rottura, quella che emerge da un’ampia analisi degli ultimi dati sulle performance scientifiche del Belpaese, appena pubblicata da Research Policy a firma di Cinzia Daraio dell’Università di Bologna e di Henk Moed dell’Università di Leiden (Paesi Bassi).
Il primo campanello d’allarme nel 2004. Per la prima volta, spiega una nota dell’Università di Bologna, l’Italia non riesce a bissare il livello di pubblicazioni scientifiche dell’anno precedente. Poi una sequela di ribassi fino al 2009, ultimo anno di cui conosciamo i dati, che fisserà a 52.496 studi pubblicati e al 3,5 per cento il record del contributo italiano al totale della ricerca mondiale.
Certamente scontiamo, come gli altri Stati europei, la concorrenza agguerrita di Paesi emergenti come India, Brasile e Cina. Quest’ultima per dare un’idea in 15 anni quadruplica le sue prestazioni, superando di slancio l’Italia (1999), la Francia (2002), la Germania (2005) e infine il Regno Unito (2006). Ma se barcolliamo anche sui numeri, specifica il comunicato, assoluti, significa che il problema è pure interno.
E il ritratto della ricerca italiana delineato dallo studio di Daraio e Moed può essere racchiuso in due dati. Siamo fanalino di coda per numero di ricercatori rispetto alla popolazione (metà della Spagna e un terzo della Gran Bretagna), ma il primo per loro produttività individuale. Lo chiamano “effetto di compensazione”. Per bilanciare i minori investimenti, i ricercatori italiani si sono arrangiati e c’hanno messo del loro. Mantenendo un tasso di produttività (numero di pubblicazioni pro capite) in costante crescita, fino a superare tutti gli altri Paesi europei. E finora era bastato. Fino al 2004 almeno.
L’Università di Bologna spiega poi che pur con un esiguo e stabile numero di ricercatori per mille abitanti (0,7: il più basso appunto), e uno smilzo 0,5 per cento di Pil investito in ricerca pubblica (solo la Spagna peggio di noi, ma ora minaccia il sorpasso) per 25 anni abbiamo mantenuto trend in crescita per produzione scientifica e qualità della ricerca. Passando dal 2 al 3,5 per cento della produzione planetaria nel primo caso, e superando nel 2000 la media internazionale nel secondo. "Considerato il talento e la buona volontà dei singoli ricercatori – precisano i due studiosi – lasciati però soli dal sistema Paese, possiamo considerare la scienza italiana una cattedrale nel deserto". Cattedrale i cui pilastri, però, già da tempo avevano cominciato a scricchiolare. Nelle collaborazioni scientifiche internazionali perdevamo terreno già negli anni Novanta.
Trent’anni fa, spiega lo studio italo-olandese, eravamo secondi in Europa per porzione di ricerche condotte in collaborazione con studiosi stranieri. Dietro alla Svizzera e spalla a spalla con gli olandesi. Poi, uno alla volta, ci sono passati avanti tutti. Eccetto la Spagna, ma ha già messo la freccia. Oggi le partnership internazionali interessano poco più del 40 per cento dei nostri studi. Ma la Svizzera nel frattempo è arrivata al 65 per cento. E gli altri veleggiano attorno al 50 per cento.
E’ noto, per esempio, ricorda Daraio, 36 anni, che a Bologna insegna economia e organizzazione aziendale, che l’Italia ha difficoltà a competere sui fondi europei per la ricerca, riportandosi a casa meno di quanto versa nelle casse dell’Unione: "Gli altri Paesi sono più organizzati. Si muovono sulla base di piani ventennali. Hanno strutture efficienti a supporto dei ricercatori. Fanno fronte comune per influenzare la scelta degli ambiti di ricerca finanziati dall’Ue. Noi ci ritroviamo coi professori che fanno fotocopie degli scontrini da rendicontare a Brussel". E anche nella gestione interna non andiamo meglio. "I nostri dati- prosegue Daraio – suggeriscono che la stessa produttività italiana non è uniforme. Ci sono forti differenze tra studiosi e studiosi. Si fa carriera per anzianita’ e non per merito. Facciamo assunzioni a ondate ‘epocali’, sulla spinta di logiche politiche. Ma un piano di reclutamento a flusso costante e cadenze regolari e programmate, farebbe meglio alla qualità della ricerca".
Forse, conclude la nota, saranno anche scelte di questo tipo a decidere se quella attuale sia solo una battuta d’arresto nel progresso scientifico del Paese oppure, al contrario, come paventano gli stessi autori nell’introduzione allo studio, "l’inizio del declino della scienza italiana".