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Santi e defunti, uno sguardo sulla vita

Pensieri sulla felicità in occasione delle ricorrenze dell'1 e 2 novembre

28 Ottobre 2008

31/10/2008

di Letizia CAPEZZALI

Di recente mi sono imbattuta in questa frase, apparentemente banale, ma concretamente, ritengo, molto vera: «Nella vita non puoi essere un pacco che l’ostetrica consegna al becchino. La vita è un dono di Dio che non va sprecato». Certo, rendersi conto che la vita è un dono e che siamo noi a decidere, attraverso le nostre scelte quotidiane, se farla fruttare o meno, non è cosa da tutti. O meglio, èquella teoria che sanno tutti, ma che in pratica vivono in pochi.

I santi, per l’appunto, quei pochi che, individuata la mèta, hanno lasciato tutto per conquistarla. Mentre vivevano, la loro vita poteva sembrare ai vicini una follia: lasciare una vita comoda per vivere la povertà evangelica, come San Francesco; rinchiudersi in un convento di clausura ancora bambina, rinunciando agli amori seducenti del mondo per realizzare il sogno di incarnare l’amore vero con Dio, come Santa Teresina di Lisieux; lasciare la sicurezza di una casa comoda per immergersi nella vita degli slums di Calcutta e servire Cristo nei più poveri tra i poveri, come la Beata Madre Teresa. Follia pura!

Eppure, a quanti di noi, anche solo ascoltando le vite straordinarie di questi uomini e donne non si è allargato il cuore riconoscendo che lì, in quella proposta divina di una vita straordinaria c’è qualcosa che riguarda anche noi? Ignazio di Loyola, soldato, costretto a stare a letto per una ferita alla gamba, leggendo le vite dei santi, fu trafitto da questo pensiero: «Se ce l’hanno fatta loro, perché non posso farcela anch’io? Chi mi impedisce di diventare santo come Francesco d’Assisi?».

Ignazio prese sul serio questa sfida. Cambiò vita, lasciò l’esercito e iniziò quell’avventura meravigliosa con Dio che lo fece diventare uno strumento di salvezza non solo per i suoi contemporanei, ma anche per le generazioni che seguirono.

«Se ce l’hanno fatta loro, perché non posso farcela anch’io?»: magari anche a noi è balenato almeno una volta nella vita un pensiero del genere. Può essere durato un attimo, ma èuno di quei pensieri che trafigge e ci fa vedere la vita non più con gli occhi di una formica, che non riesce a vedere che a un palmo dal suo naso, ma con quelli di un’aquila che domina l’inizio e la fine del sentiero che sta sorvolando, riconoscendo che la meta da seguire non è la ricchezza o il successo, ma ben altro.

Per quanto spesso ci troviamo a vivere le nostre giornate senza un senso preciso, nella routine di azioni che sembrano farci “tirare avanti” invece che essere frutto di scelte consapevoli, quando sentiamo parlare di immortalità, di eternità, di beatitudine, il nostro cuore sente che si sta parlando di cose che lo riguardano. L’uomo porta impresso nel cuore un desiderio di immortalità, di felicità che non può essere soffocato e che solo Dio, che glielo ha posto nel cuore, può colmare.

Il 1° novembre la Chiesa celebra la festa di tutti i santi per ricordare che il destino dell’uomo è niente di meno che partecipare alla stessa gloria e alla stessa beatitudine di Dio. Dio Padre, che ci ama di un amore inimmaginabile, ci ha destinati a entrare nella Trinità stessa di Dio, quali membra del corpo glorioso di Cristo del quale siamo diventati parte attraverso il sacramento del battesimo che abbiamo ricevuto. La chiamata alla santità è, dunque, per tutti. E la Chiesa, infatti, ci ricorda che la festa di tutti i santi è la nostra festa, perché la santità è ciò a cui ciascuno di noi è chiamato da Dio.

Nessuno può dire: «Questo invito non è per me, la santità non fa per me, non ne sono capace», perché essa non è questione di capacità, ma di desiderio. Dio non ci chiede di diventare santi con le nostre forze: sa benissimo che senza di Lui non possiamo far nulla. Dio ci chiede, invece, di accogliere un dono, di corrispondere al sogno di un Padre che vuole i suoi figli felici, con Lui, per sempre.

Alla luce di questo regalo, anche la morte non può fare più paura, anzi. Per noi cristiani è il momento dell’incontro con il nostro Papà che amorevolmente ci ha condotto passo passo attraverso la vita e che finalmente può tenerci stretti a sé riversando su noi tutto il suo amore. Allora, se la morte ci introduce a tutto questo, ha senso temere l’inizio della nostra felicità?