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Il giorno della memoria

Quando l’amore sconfigge la morte

Etty Hillesum, in campo di concentramento ad Auschwitz, meditando sulla morte così scriveva: «È l'amore, umano e divino, che sconfigge la morte a dispetto delle nazioni, delle generazioni e di tutto l'orrore del nostro tempo� Alla morte è stato dato potere su tutto quanto è finito... ma alla morte non è concesso alcun potere sull'amore. L'amore è più forte». Ci voleva del coraggio ma anche una eredità di memorie, che l'hanno preparata a questo. Non si improvvisa nulla nella vita

di Vittorio CHIARI Redazione Diocesi

29 Ottobre 2010

Nel mio piccolo, non oso confrontarmi con la grande Hillesum, è all’oratorio che, fin da ragazzo, mi hanno insegnato l’arte del morire! Non per spaventarci! Per metterci davanti il giorno dell’ira, il “Dies irae”, il giudizio e l’inferno! Il “Dies irae” lo cantavano i canonici ma, essendo in latino, noi chierichetti non provavamo angoscia o terrore. A casa invece risuonava il “Libera me Domine”, cantato da Beniamino Gigli, nel vecchio grammofono a manovella, che mi dava il senso della Speranza. In oratorio, era tradizionale la data della prima domenica del mese, quando il Don ci invitava, a confrontarci con questo traguardo, verso il quale, più o meno rapidamente, di corsa o a piedi, tutti siamo incamminati. Era “l’esercizio della buona morte” di Don Bosco, che si concludeva con un panino e mortadella dato a tutti all’uscita della chiesa, dove aver disposto “le cose dell’anima” con la confessione e la comunione “come se dovessimo realmente morire” in quella mattina di festa.

Non ci passava neppure per la testa di essere arrivati al traguardo! In mente avevamo la partita di calcio e ci sentivamo come San Luigi e Domenico Savio, allora non ancora santo, che alla domanda: «Cosa faresti se ti dicessero che devi morire fra poco?», avevano risposto che avrebbero continuato a giocare. Ogni tanto fissavo una data: morire come Domenico Savio a 15 anni, ma all’avvicinarsi della scadenza, cambiavo data e santo, andando sempre più in là, sorridendo della morte, che pure incontravo, non in televisione, ma nella realtà quotidiana. Se toccava a un ragazzo dell’oratorio o alla mamma o al papà di uno di noi, si andava in gruppo alla veglia di preghiera, si partecipava con la bandiera dell’associazione al funerale. A novembre, poi, si viveva con altrettanta serenità la tradizionale visita al Camposanto con la castagnata finale nei cortili dell’oratorio, dove il Don si arrabbiava sempre per la battaglia che si scatenava dopo la merenda, obbligandoci a raccogliere le bucce di castagne seminate dovunque!

Il Don non mi ha mai spiegato bene cosa c’è dopo la morte, ma mi ha dato le dritte per illuminarla della luce della speranza, per sentirne meno l’angoscia: «Parlare della morte ci fa apprezzare di più il dono della vita», diceva, traducendo in modo semplice che l’arte del morire bene è il retro della medaglia del vivere bene. Erano le immagini del Vangelo, le parole di Gesù, che ascoltavamo al pomeriggio della domenica quando ci radunavamo in chiesa prima del cinema. Lazzaro o il figlio della vedova di Naim, le parabole del ricco epulone e del povero, del giudizio finale, erano familiari a tutti gli oratoriani, come le morti dei santi e delle sante, dei nostri cari. Il sorriso di mia mamma, morendo, nasceva dalle parole di Cristo: «Vado avanti a prepararvi un posto… ritornerò».

Nostalgia di vecchi tempi da aggiornare e da rinfrescare per i nostri ragazzi e giovani che sono abituati a vedere la morte in TV ma fuggono da quella reale: «A casa, la mamma, no! Lasciala in ospedale, papà. I morti in casa portano sfortuna!». La pensano così anche tanti adulti, le stesse amministrazioni locali, che organizzano bene le onoranze funebri ma vietano i cortei: danno fastidio al traffico, infastidiscono la gente, bisogna andare di fretta, tanto non cambia niente.

«Ciò che pensiamo della morte può spaventarci o infonderci fiducia e tranquillità. Può renderci difficile affrontarla o aiutarci a integrarla nella nostra vita, facendoci vivere serenamente, ma al tempo stesso con consapevolezza e attenzione in vista della nostra inevitabile fine. Soltanto se accettiamo la morte come mèta della nostra vita, e non come annientamento, possiamo vivere pienamente la nostra essenza di mortali eppure chiamati alla risurrezione». Sono le parole di Anselm Grun, nella sovracopertina del suo libro:”Che cosa c’è dopo la morte?”. Le parole di Gesù certamente trasformano la nostra paura in speranza e serenità. A questo deve tendere anche la formazione in oratorio, preparando la morte. Nel mio piccolo, non oso confrontarmi con la grande Hillesum, è all’oratorio che, fin da ragazzo, mi hanno insegnato l’arte del morire! Non per spaventarci! Per metterci davanti il giorno dell’ira, il “Dies irae”, il giudizio e l’inferno! Il “Dies irae” lo cantavano i canonici ma, essendo in latino, noi chierichetti non provavamo angoscia o terrore. A casa invece risuonava il “Libera me Domine”, cantato da Beniamino Gigli, nel vecchio grammofono a manovella, che mi dava il senso della Speranza. In oratorio, era tradizionale la data della prima domenica del mese, quando il Don ci invitava, a confrontarci con questo traguardo, verso il quale, più o meno rapidamente, di corsa o a piedi, tutti siamo incamminati. Era “l’esercizio della buona morte” di Don Bosco, che si concludeva con un panino e mortadella dato a tutti all’uscita della chiesa, dove aver disposto “le cose dell’anima” con la confessione e la comunione “come se dovessimo realmente morire” in quella mattina di festa.Non ci passava neppure per la testa di essere arrivati al traguardo! In mente avevamo la partita di calcio e ci sentivamo come San Luigi e Domenico Savio, allora non ancora santo, che alla domanda: «Cosa faresti se ti dicessero che devi morire fra poco?», avevano risposto che avrebbero continuato a giocare. Ogni tanto fissavo una data: morire come Domenico Savio a 15 anni, ma all’avvicinarsi della scadenza, cambiavo data e santo, andando sempre più in là, sorridendo della morte, che pure incontravo, non in televisione, ma nella realtà quotidiana. Se toccava a un ragazzo dell’oratorio o alla mamma o al papà di uno di noi, si andava in gruppo alla veglia di preghiera, si partecipava con la bandiera dell’associazione al funerale. A novembre, poi, si viveva con altrettanta serenità la tradizionale visita al Camposanto con la castagnata finale nei cortili dell’oratorio, dove il Don si arrabbiava sempre per la battaglia che si scatenava dopo la merenda, obbligandoci a raccogliere le bucce di castagne seminate dovunque!Il Don non mi ha mai spiegato bene cosa c’è dopo la morte, ma mi ha dato le dritte per illuminarla della luce della speranza, per sentirne meno l’angoscia: «Parlare della morte ci fa apprezzare di più il dono della vita», diceva, traducendo in modo semplice che l’arte del morire bene è il retro della medaglia del vivere bene. Erano le immagini del Vangelo, le parole di Gesù, che ascoltavamo al pomeriggio della domenica quando ci radunavamo in chiesa prima del cinema. Lazzaro o il figlio della vedova di Naim, le parabole del ricco epulone e del povero, del giudizio finale, erano familiari a tutti gli oratoriani, come le morti dei santi e delle sante, dei nostri cari. Il sorriso di mia mamma, morendo, nasceva dalle parole di Cristo: «Vado avanti a prepararvi un posto… ritornerò».Nostalgia di vecchi tempi da aggiornare e da rinfrescare per i nostri ragazzi e giovani che sono abituati a vedere la morte in TV ma fuggono da quella reale: «A casa, la mamma, no! Lasciala in ospedale, papà. I morti in casa portano sfortuna!». La pensano così anche tanti adulti, le stesse amministrazioni locali, che organizzano bene le onoranze funebri ma vietano i cortei: danno fastidio al traffico, infastidiscono la gente, bisogna andare di fretta, tanto non cambia niente.«Ciò che pensiamo della morte può spaventarci o infonderci fiducia e tranquillità. Può renderci difficile affrontarla o aiutarci a integrarla nella nostra vita, facendoci vivere serenamente, ma al tempo stesso con consapevolezza e attenzione in vista della nostra inevitabile fine. Soltanto se accettiamo la morte come mèta della nostra vita, e non come annientamento, possiamo vivere pienamente la nostra essenza di mortali eppure chiamati alla risurrezione». Sono le parole di Anselm Grun, nella sovracopertina del suo libro:”Che cosa c’è dopo la morte?”. Le parole di Gesù certamente trasformano la nostra paura in speranza e serenità. A questo deve tendere anche la formazione in oratorio, preparando la morte.