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Intervista

«Cercare di mostrare il volto buono
della comunità ecclesiale»

Giovanna Riboldi, insegnante di religione: «Forse basterebbe solo una parola che faccia trasparire la misericordia o la speranza di cui un adolescente può avere bisogno»

di Cristina CONTI

23 Febbraio 2014

Secondo il rapporto dell’Istituto Toniolo, solo l’1% dei giovani considera figure di riferimento preti ed educatori in ambito religioso. Come mai? L’abbiamo chiesto a Giovanna Riboldi, insegnante di religione di Desio (MB). «Ho provato a rivolgere questa stessa domanda ai miei alunni – spiega – e mi hanno risposto: che si sentirebbero ridicoli davanti ai loro amici a parlare dei problemi personali con un prete, che i consigli si chiedono ai genitori (veri punti di riferimento) o agli amici, non a estranei (evidentemente per molti adolescenti ormai l’ambiente ecclesiale non è “casa” in cui sentirsi accolti, protetti, capiti), e che non si rivolgerebbero a preti perché non di loro si fidano, con loro non hanno intimità, “non danno consigli utili”, “non fanno la nostra vita” e quindi “cosa potrebbero capire?”. È vero: non frequentando più la comunità ecclesiale, almeno dopo la Cresima, molti giovani non sentono più di poter trovare aiuto da persone con cui non condividono alcun aspetto della vita. Non è solo la “prima generazione incredula”: è anche la prima generazione che non ha nei propri ricordi quel “don” che in qualche modo ha segnato l’infanzia. Se poi pensiamo a come sentono parlare della Chiesa… Si dice di tutto e di più, e spesso (a torto o a ragione) non in termini molto esaltanti. Anche se i vari sondaggi dicono che la Chiesa-istituzione regge quando si tratta di fidarsi di qualcuno, nella realtà i motivi per cui un giovane possa andare a cercare un religioso/a sono molto flebili.

E che cosa fare invece per cambiare la situazione?
Forse potremmo cercare di non sprecare alcune buone occasioni. Innanzitutto potrebbe essere utile mostrare, sempre e comunque, il volto “buono” delle comunità ecclesiali (preti e laici): gente capace di stimarsi, di aiutarsi, di vivere “evangelicamente” le varie situazioni della vita. A mio avviso sarebbe importante anche che i sacerdoti curassero maggiormente la predicazione (un po’ di giovani vanno ancora a messa!): non aver paura di usare un linguaggio diretto, de-sacralizzato, incarnato, che non dimentica il “corpo” delle persone. Sarebbe bello anche cogliere al volo le occasioni di ritrovo di molti giovani nei nostri paesi: penso alle iniziative organizzate da vari Comuni in estate, agli Hub Giovani e così via…Ma forse a volte basterebbe che, pur dopo giornate sicuramente faticose, il prete scendesse la sera sui gradini della propria parrocchia, si accostasse al “muretto” del proprio oratorio, attraversasse il parcheggio davanti alla chiesa per trovare quei giovani che non mettono piede cento metri più in là, che magari disturbano la quiete pubblica o usano un linguaggio non proprio elegante, ma che forse hanno davvero bisogno di un adulto che sia riferimento, o forse solo di una parola “buona” che faccia trasparire quella misericordia o quella speranza di cui anche un adolescente può sentire il bisogno.