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Il significato

Comunità pastorali, luogo di impegno per i laici

Dopo l'omelia dell'Arcivescovo nella messa crismale sul "sacerdozio comune", parla il vicario generale monsignor Redaelli: «Occorre imparare a lavorare insieme, partendo dalla stima reciproca e dalla valorizzazione delle diverse vocazioni»

di Pino NARDI

31 Marzo 2008

«Diciamolo francamente: se le comunità pastorali dovessero servire solo a “risparmiare” qualche prete o ad “aprire” qualche spazio in più di ministerialità ai laici, ma non dovessero portare a un vero, costante e concreto rinnovamento missionario, occorrerebbe riconoscerne e dichiararne il fallimento».
Il cardinale Tettamanzi è stato molto chiaro nella sua omelia nella messa crismale del Giovedì santo davanti a centinaia di sacerdoti e migliaia di fedeli in Duomo. «Si è voluto sottolineare la corresponsabilità dei laici, riscoprendo il tema, proposto in modo chiaro dal Concilio, del sacerdozio comune – spiega monsignor Carlo Redaelli, vicario generale della diocesi di Milano -. Al di là del sacramento dell’Ordine e dei diversi ministeri nella Chiesa, c’è la radice comune del battesimo, che rende le persone testimoni del Vangelo con la loro vita e parola. Se non c’è questo dono “nascosto” nel tesoro della Chiesa, qualunque scelta organizzativa, strutturale e soprattutto missionaria della diocesi non può funzionare».
Dunque, una modalità nuova di essere comunità sul territorio. Un fenomeno consistente: sono già 43 le comunità pastorali, di cui 23 con il direttivo; coinvolgono 500 mila abitanti, un decimo dell’intera popolazione diocesana; 141 parrocchie, 166 sacerdoti, 23 religiosi, 14 diaconi permanenti, 7 laici e qualche famiglia.
«I laici sono ancora pochi», sottolinea monsignor Redaelli. È necessario dare loro maggiore spazio, puntando sulla comunione corresponsabile per la missione: «Da una parte il sacerdote ambrosiano, anche nella sua generosità, tende a gestire ogni cosa, magari lamentandosi della scarsa collaborazione, rischiando poi però di accentrare tutto a sé – afferma il vicario generale -. Dall’altro, ai laici qualche volta fa anche comodo. Invece occorre imparare a lavorare insieme, a partire dai consigli pastorali. Ma esige anzitutto una stima reciproca, una valorizzazione delle diverse vocazioni».
Per far questo ènecessaria una formazione continua. «Infatti l’Arcivescovo sottolinea molto questo aspetto – sostiene monsignor Redaelli -, perché non si improvvisa una corresponsabilità. Questo vale non solo per i laici, ma anche per i preti. Le comunità pastorali richiedono una grande comunione tra sacerdoti, con ruoli innovativi: nessuno decide da solo, anche se nel direttivo ciascuno seguirà i propri ambiti, avrà i suoi compiti. È un messaggio bello e forte, ma esige anche tempo».
Le comunità pastorali per funzionare hanno bisogno di superare anche chiusure e autoreferenzialità? «Sì, ma funzionano quando valorizzano le singole realtà – risponde il vicario -, se hanno una loro identità devono mantenerla e metterla al servizio degli altri. La sfida è questa: funziona quando c’è questa collaborazione. Quindi ognuno si tiene il suo campanile, ma va insieme agli altri. Magari facendo anche cose nuove. Alcune comunità pastorali sono nate legate a una missione popolare che ha riguardato le Chiese del territorio. Èun modo per rilanciare e aprire il respiro delle parrocchie e dare entusiasmo».

 

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