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Grande schermo

Debito di ossigeno, un film «allarmante»

Nel suo fine di denuncia lo definisce così Giovanni Calamari, regista del documentario che Caritas Ambrosiana e Fondo Famiglia Lavoro propongono alle parrocchie per riflettere sui cambiamenti imposti dalla crisi

di Silvio MENGOTTO

31 Maggio 2010

Nel film documentario Debito di ossigeno – tratto da un soggetto vincitore di un bando della Provincia di Milano e patrocinato dalla Caritas Ambrosiana, che insieme al Fondo Famiglia Lavoro lo propone alle parrocchie per riflettere sui cambiamenti imposti dalla crisi economica – il regista Giovanni Calamari propone due storie vere: Fulvia, trentasettenne romana, vive nella provincia milanese col figlio di otto anni e campa con i contratti a termine; Daniele e Sabrina, con un figlio all’asilo, si trovano con un mutuo da pagare nel bel mezzo di una ristrutturazione aziendale che potrebbe portare al licenziamento o alla riassunzione.
Un film documentario realizzato con criteri particolari, come spiega lo stesso Calamari: «Per prima cosa incontro le persone che verranno filmate. Successivamente scrivo, prendo contatto e vado a trovarli. Racconto loro il progetto. Dico loro che voglio entrare nelle loro vite e filmare tutto e oltre al consenso chiedo perché siano disposti a farsi filmare. Entro nelle loro case con la telecamera nella maniera più silenziosa possibile, in modo tale da sottrarmi sempre di più sino a diventare invisibile».

Come è nato questo film documentario?
Inizialmente volevo raccontare il tema delle nuove povertà. Ma quando è iniziata la crisi economica, mi sono dedicato alle storie vere. Ho cercato situazioni-tipo e nel ceto medio ho trovato una famiglia insospettabile: Daniele e Sabrina, sui 45 anni, lui con un lavoro molto qualificato alla Motorola, lei impiegata, un figlio di quattro e una casa con mutuo da pagare. Una situazione assolutamente normale e classica. Cosa succede se improvvisamente le certezze, cioè il lavoro, vengono a mancare? Con la storia di Fulvia e del figlio Alekos, otto anni, che lei cresce da sola perché non è riconosciuto dal padre, volevo invece capire come vive una persona abituata alla precarietà personale e lavorativa. Soprattutto come pensa e come reagisce a quindici giorni dalla scadenza del suo contratto.

Come è riuscito a “entrare” nelle loro vite?
Daniela e Sabrina hanno accettato la mia “intrusione” con questa motivazione: avevano capito il progetto e gli intenti e consideravano la loro storia esemplare, utile a qualcuno. Per loro era anche un pezzo di storia che sarebbe rimasto in casa loro: Fabrizio, il figlio di Daniela, a vent’anni avrà una testimonianza incredibile della sua famiglia e di quel periodo vissuto tra tante difficoltà.

Le domande raccolte al Fondo Famiglia-Lavoro si spartiscono equamente tra italiani e stranieri. Perché il documentario propone solo storie di italiani?
Avevo un obiettivo, quasi un’ossessione: quello di non fornire alibi allo spettatore. Per questo ho scelto famiglie italiane, normali, come quella di Daniele e Sabrina. Fulvia è precaria, ma è intelligente, istruita, conosce tre lingue. Se avessi raccontato storie di immigrati avrei fornito allo spettatore una via di fuga, e cioè pensare che quanto vedeva sullo schermo era lontano da lui. Volevo fare un film “allarmante” e così ho proposto situazioni al di sopra di ogni sospetto.

Due storie diverse, ma accomunate dalla mancanza di futuro…
È il mio punto di vista. Un documentario è lo sguardo del regista sulla realtà, e non può essere freddo e oggettivo. Io penso che il nostro Paese sia avviato verso un futuro molto incerto e che il film-documentario rilevi il fallimento di un modello sociale. Daniele e Sabrina perdono il lavoro e non sanno come andrà a finire: la loro storia si chiude come si è aperta, cioè a tavola. Per Fulvia il film si chiude con una trasferta a Barcellona. Non si sa se ci vada per incontrare la madre, oppure per altri motivi. La vediamo che cerca lavoro senza trovarlo e poi la ritroviamo in un altro Paese…

È difficile costruire un cammino di speranza?
Ho provato in mille modi a introdurre questo motivo, ma di fatto il film rileva e evidenzia che, oltre al fallimento del sistema sociale, condurre un’esistenza in questo modo significa indebolirsi socialmente e culturalmente. Indebolire le certezze sociali e la dignità delle famiglie significa controllarle e assoggettarle alle volontà di uno Stato e non essere partecipi dello Stato.

Il tema della vulnerabilità emerge con crudo realismo. È il volto delle nuova povertà?
Il documentario evidenzia diverse dinamiche: la perdita di lavoro da parte di uomini dopo i 40 anni non solo è un dramma, ma oggi è un tema nascosto. A livello istituzionale si fa finta di occuparsene. Psicologicamente è un evento traumatico. E c’è un risvolto più drammatico…

Quale?
La vulnerabilità mina alcuni valori. Se un uomo di oltre 40 anni perde l’impiego e la moglie invece lavora, diventa lei il capofamiglia, i ruoli si invertono. Trovarsi nella condizione di mantenuto, per un uomo, è un altro evento traumatico, inaccettabile, che col passare del tempo facilita il conflitto familiare. La cronaca racconta sempre più spesso episodi tragici all’interno delle famiglie a causa di problemi legati alla perdita del lavoro.

Nel documentario emergono altri temi?
La distanza tra le generazioni: I genitori non riescono a capire come aiutare i figli. I genitori non hanno strumenti validi per aiutare i propri figli in difficoltà se non sostituirsi allo Stato fornendo un cuscinetto economico. Daniele dice al figlio: «Io ti aiuterei in qualsiasi modo se potessi, ma non so come fare». Altro aspetto è l’isolamento sociale. Queste famiglie sono sole, completamente isolate, prive di una rete sociale. Quando ti succede qualcosa del genere scatta un senso di vergogna, si cerca di nascondere il disagio e di mantenere lo stesso tenore di vita di prima. L’intervento di enti come la Caritas non basta, lo Stato non dovrebbe delegare loro il problema.