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Iconografia

La Vergine delle Rocce di Leonardo:
due versioni e molte copie

Una composizione complessa e ricca di richiami simbolici, biblici e teologici, incentrata sul tema dell'Immacolata Concezione di Maria.
Ammirata già dai contemporanei, "ispirò" diverse opere, ancor oggi presenti sul territorio ambrosiano e tutte da riscoprire.

di Luca FRIGERIO

4 Dicembre 2012

Due versioni, molte copie. La «Vergine delle Rocce» è uno dei capolavori di Leonardo da Vinci, fra i più ammirati, fra i più complessi. Incentrato sul mistero dell’immacolata concezione di Maria e sul suo ruolo nella redenzione del genere umano, e tuttavia ancora da decifrare con precisione in tutti i suoi richiami biblici, teologici e simbolici. Un’opera «duplicata» dallo stesso maestro toscano, con significative varianti. E se oggi i due dipinti, pur realizzati entrambi a Milano, si trovano al Louvre di Parigi e alla National Gallery di Londra, nelle chiese e nei musei ambrosiani rimangono pregevoli lavori artistici ad essi direttamente ispirati. Tutti da scoprire ed ammirare.

La «Vergine delle Rocce» rappresenta la prima commissione certa ricevuta da Leonardo dal momento del suo arrivo a Milano. L’opera, infatti, gli venne richiesta nel 1483 dalla Confraternita laica dell’Immacolata Concezione per la propria cappella nella chiesa di San Francesco Grande, oggi scomparsa, ma che sorgeva nei pressi dell’Università Cattolica. Questo dipinto, tuttavia, con molta probabilità non fu mai consegnato ai committenti.

Secondo alcuni studiosi, infatti, l’opera avrebbe presentato elementi non pienamente ortodossi (ispirati, si è supposto, alla discussa mariologia del beato Amedeo Mendes da Silva), venendo quindi respinta dai confratelli dell’Immacolata. In realtà, come dimostrano alcuni documenti, il contenzioso fra Leonardo e la confraternita dovette essere di natura squisitamente economica.

A questo, però, si aggiunse forse anche l’interessamento dello stesso Ludovico il Moro, che si sarebbe «impossessato» della pala per farne dono a Massimiliano d’Asburgo in occasione delle sue nozze con Bianca Maria Sforza. In seguito a successivi «incroci» dinastici, il dipinto sarebbe poi arrivato alla corte di Fontainebleau e quindi al Museo del Louvre.

Per onorare comunque il contratto con San Francesco Grande, il nostro artista pose mano, dieci anni più tardi, a una seconda versione della «Vergine delle Rocce», poi ultimata tra il 1506 e il 1508 (anche con l’aiuto di allievi), infondendovi un’atmosfera sensibilmente diversa ed elaborando una differente gestualità dei personaggi. Con la soppressione della Confraternita dell’Immacolata, nel XVIII secolo, l’opera fu quindi venduta a un pittore inglese, entrando così a far parte delle collezioni londinesi.

Estremamente complessa, lo si diceva, è la lettura di questo capolavoro, nelle sue due varianti. Qui facciamo notare soltanto come la grotta in cui Leonardo ambienta la scena sia fortemente evocativa del mistero di quel grembo materno destinato ad accogliere il Figlio di Dio, e quindi della Natività. I massi stessi che circondano la Vergine rimandano al Cantico dei Cantici, dove lo sposo parla della sua amata come di una colomba nascosta nelle fenditure della roccia: Maria, cioè, nasce dall’eternità nel cuore stesso del Creato per essere Madre di Dio. Madre di quel Bambino Gesù su cui stende la sua mano, come a riconoscere il mistero straordinario dell’Incarnazione, ma allo stesso tempo come a proteggere quel figlio che darà la vita per la salvezza degli uomini (e che la presenza del Precursore già testimonia).

Questa composizione di Leonardo destò grandissima ammirazione già nei contemporanei, tanto da essere subito copiata e imitata. Fra le numerose opere ispirate alla «Vergine delle Rocce», segnaliamo innanzitutto un’opera davvero particolare e per molti versi straordinaria: si tratta di un paliotto di seta ricamata, realizzato per il santuario del Sacro Monte di Varese e oggi conservato nell’attiguo Museo Baroffio. Il prezioso manufatto è stato recentemente datato intorno al 1490, pochi anni dopo, cioè, la realizzazione della prima versione della pala leonardesca, dalla quale, infatti, sembra derivare direttamente (come dimostra il gesto dell’angelo che indica san Giovannino).

Si rifà invece alla seconda versione della «Vergine delle Rocce» una mirabile tavoletta giunta nell’Ottocento nella parrocchiale di Santa Giustina, nel quartiere di Affori a Milano. L’opera, per la sua bellezza, è stata ritenuta in passato di mano dello stesso Leonardo, quasi una sorta di «bozzetto» o di replica del maestro in scala ridotta. Oggi gli studiosi tendono invece ad attribuire la paternità dell’opera ad Ambrogio De Pedris, amico di Leonardo e suo collaboratore proprio nell’impresa della Concezione. Resta lo stupore per un piccolo capolavoro a lungo ignorato dalle fonti e dalla critica.

Un’altra copia della pala esposta in San Francesco Grande, ma di pari dimensioni, è quella conservata presso la Pinacoteca Ambrosiana, fatta eseguire dallo stesso Federico Borromeo ad Andrea Bianchi detto il Vespino, un pittore «specializzato» in repliche leonardesche, avendo infatti realizzato, per lo stesso cardinale, anche una riproduzione dal vero del Cenacolo. Particolarmente interessante il fatto che, in questa copia borromaica, non compaiano né le aureole né il bastone con la croce fra le mani del piccolo Battista: indizio che neppure Leonardo aveva previsto questi elementi nella sua seconda versione, ma che furono aggiunti in un secondo tempo, e comunque non prima della metà del XVII secolo.

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testo e foto di Luca Frigerio