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Testimonianza

Maria, scappata dall’Eritrea,
ora ricomincia a vivere

«Sono riuscita ad avere un lavoro e una casa, ma adesso il mio pensiero più grande è quello di riuscire a portare qui anche mio figlio di 4 anni»

di Cristina CONTI

20 Gennaio 2013

Scappare dal proprio Paese. Lasciare casa, marito, figli e fratelli. Nella speranza di costruirsi un futuro altrove, lontano da un regime oppressivo, da un governo che impone forti restrizioni alle libertà di espressione, di aggregazione e di culto. È la storia che accomuna tanti profughi, che arrivano in Italia dalle parti più disparate del mondo. E che ormai qui da noi si trovano un po’ dappertutto, dalle grandi metropoli, fino alle piccole cittadine di provincia.

Come Maria (nome di fantasia), 25 anni, di origine eritrea. Arrivata in Italia quasi due anni fa, ha lasciato in Africa il figlio, di quattro anni, il marito e due fratelli. «Quando sono arrivata qui non avevo nulla. Non sapevo dove andare a mangiare o a dormire. Non conoscevo neppure la lingua», racconta. E, nel cuore, solo il desiderio di lasciarsi alle spalle uno Stato militarizzato, dove ogni giorno si consumano sofferenze e atrocità, la leva è obbligatoria e a tempo indeterminato, la detenzione e la tortura sono la norma, mentre i diritti umani vengono continuamente negati.

Una storia di forza e di coraggio, perché chi cerca di scappare dall’Eritrea rischia rigide punizioni e la possibilità di vedersi aprire il fuoco contro qualora tenti di attraversare il confine. E le ritorsioni non mancano neppure per le famiglie, perché lì il governo punisce anche i parenti di chi cerca di fuggire o diserta il servizio militare, con multe esorbitanti o la carcerazione.

In Italia Maria ha potuto contare subito sulla Caritas di Erba (Co), che le ha dato un aiuto significativo. E non solo materiale. «Mi hanno procurato vestiti, cibo, un posto dove dormire. Le persone che ho potuto incontrare qui sono sempre state molto disponibili con me: pronte a un sorriso e a un incoraggiamento», continua Maria.

Ma la cosa più difficile è stata trovare un lavoro. «Nel mio Paese ho potuto studiare molto poco. Ho frequentato, infatti, solo le scuole elementari», aggiunge. Così dopo qualche mese dal suo arrivo ha inizia a frequentare un corso per imparare l’italiano e rendersi autonoma. Ma ci vuole tempo. La crisi economica e l’alto tasso di immigrazione non rendono certo le cose facili, soprattutto per i profughi con un basso titolo di studio. Solo dopo un anno e mezzo arriva la prima offerta: un lavoro di badante nel centro di Como. «Sono stata molto felice di questa opportunità. Ho iniziato lo scorso novembre e ormai sono quasi tre mesi che lavoro per una signora anziana. Le sto vicino, le faccio compagnia, l’aiuto in casa nelle faccende domestiche», spiega.

E finalmente Maria si sente soddisfatta. Ma manca ancora qualcosa. Il pensiero torna sempre ai suoi cari, che sono rimasti in Eritrea e alle situazioni difficili che devono affrontare. «Ormai sono riuscita ad avere un lavoro e una casa. Ora il mio desiderio più grande è quello di riuscire a portare qui anche mio figlio. So che non sarà semplice, ma farò di tutto per riuscirci: accanto a me ci sono tante persone su cui posso contare».